Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

Una donna calabrese vittima della chiesa locale, che vuole derubarla. Un processo che cambia la Storia. E un finale agrodolce, tra tabù difficili da infrangere e riscoperte meritorie

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Quella di Cecilia Faragò è una storia in cui si intrecciano pregiudizi, credenze popolari, timore del soprannaturale, manipolazione della verità e ignoranza. È la storia di una di quelle donne che, ieri come oggi, fanno paura per la volontà di affrancarsi dal ruolo imposto loro dalla società e di uscire dalle gabbie in cui sono state confinate.
Calabria, seconda metà del Settecento. Nell’entità amministrativa borbonica della Calabria Ultra, precisamente nel piccolo centro di Soveria Simeri – in un territorio che doveva rientrare in quello dell’antica (e storicamente dai contorni leggendari) Trischene – si svolse un processo destinato a imprimere un cambiamento nelle sorti del Regno di Napoli, e con esso dell’Europa intera.

Mentre altrove si viveva il Secolo dei Lumi – per dirne una, nel 1763 usciva il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, scritto fondamentale sulla libertà di credo e di opinione in cui una buona volta veniva definito “barbaro” il diritto all’intolleranza –, a Soveria Simeri una donna, esperta di erbe officinali, veniva accusata di essere una magara, una strega, una di quelle figure che da sempre suggestionano l’immaginario collettivo dei popoli preda della superstizione.

Le bramosie del clero locale

Nata fra il 1710 e il 1712 a Soveria Simeri o nella vicina Zagarise, entrambi comuni della Sila Catanzarese, Cecilia Faragò intorno ai vent’anni era andata in sposa a Lorenzo Gareri, piccolo proprietario terriero di Soveria. I due ebbero due figli: Sebastiano, indirizzato presto alla vita conventuale, e Andrea, cagionevole di salute e morto prematuramente per una malattia che i mezzi e, ancor di più, i saperi del tempo non riuscirono a curare. Proprio dalla scomparsa del secondogenito principiarono le vicissitudini della Faragò, già vedova, e la strada che la portò a ricorrere prima alla Regia udienza provinciale di Catanzaro e poi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli per reclamare i suoi diritti.

Questo è quanto accadde. Nelle penose ore del lutto, Cecilia Faragò fu indotta con l’inganno a siglare un contratto col quale il figliolo appena estinto disponeva che tutte le sue proprietà – un cospicuo patrimonio di terreni lasciatogli in precedenza dal padre – andassero a un prete del posto.
Non intenzionata a soccombere alla truffa che la avrebbe condannata a una vita di stenti, la Faragò si recò al Palazzo di Giustizia, riuscendo in un primo momento ad avere la meglio. Ma i due prelati, bramosi di non mollare gli averi della vedova, non si diedero per vinti. Facendo leva sul loro ruolo e potere sociale, presero a far circolare delle voci per macchiare la reputazione della donna e mettere in dubbio la sua credibilità, colpendola sul lato morale quanto su quello economico.

«È alleata del diavolo dagli oscuri poteri. […] È stata iddha, è andata alla stregheria e ha fatto la magarìa, quella della polvere della morte: Purbara ’e mortu ti veni a pigghiara, ti vegnu a jettara e fin’a ra morta ti vogghiu levara».

Le accuse a Cecilia Faragò e il suo storico processo

In buona sostanza, i preti diffusero la voce che Cecilia Faragò non fosse una banale erborista, ma una magara, una lucifera, una pericolosa fattucchiera. Insinuarono che, a causa dei suoi dissapori con l’avido clero locale, avesse già cagionato il malore e poi il decesso di un sacerdote, Antonio Ferrajolo – morto per cause non accertate –, ricorrendo ai suoi misteriosi intrugli e incantesimi. Un castello di accuse costruito sulle fondamenta del pregiudizio e della superstizione, ma tutt’altro che fragili in certi contesti sociali, lontani dai luccichii della ragione. E così nessuno più si recò dalla Faragò, tacciata di essere capace di produrre filtri d’amore e magarìe d’ogni sorta. Nessuno acquistò più i suoi oli profumati, i suoi infusi e unguenti di erbe, per paura di fare la fine del Ferrajolo.

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Una statua in memoria di Cecilia Faragò

Presto incarcerata, la presunta strega dimostrò un coraggio e una tenacia invidiabili. Conscia dell’ingiustizia riservatale e dei propri diritti nonostante la totale assenza di studi, affidò la sua difesa a un giovanissimo avvocato, il ventenne Giuseppe Raffaelli, che con una brillante arringa dimostrò l’inesistenza della stregoneria (la perorazione è raccolta da Mario Casaburi nel libro La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli). Il legale convinse la corte della innocenza della sua assistita e, allo stesso tempo, della cupidigia dei due reverendi artefici di quelle ignobili calunnie.

La stregoneria non è reato

L’affaire Faragò valicò presto i confini del paesello del Catanzarese e conquistò una notevole eco. Diede così occasione al re di Napoli Ferdinando di Borbone di abolire per sempre il reato di stregoneria e fattucchieria, una scelta sapiente che presto adottarono altri Paesi del Vecchio Continente.
Il finale della vicenda di Cecilia Faragò ha un sapore agrodolce. Prosciolta pienamente dall’accusa di maleficium, la donna non riuscì comunque a rimettere le mani su tutto il suo legittimo patrimonio e si spense in povertà. Innalzò però se stessa a icona di resistenza contro le violenze e le sopraffazioni, emblema di indipendenza e di emancipazione femminile, paladina di ogni donna costretta a nascondersi dietro una posizione non scelta ma assegnatole forzatamente dalla società.

Cecilia Faragò: quando l’arte vince l’oblio

La sua storia di coraggio e di difesa della propria libertà ha ispirato libri e monologhi teatrali, riscoperta dalle arti dopo secoli di oblio. Per lunghissimo tempo, infatti, la faccenda Faragò è stata un tabù, «una ferita irrisolta per la comunità» scrive Emanuela Bianchi, attrice, fondatrice nel 2004 della compagnia teatrale Confine incerto e autrice dello spettacolo teatrale LaMagara e del libro L’ultima strega (Oligo, da cui sono tratte le citazioni del presente testo), anche nel luogo in cui si svolsero gli avvenimenti, Soveria Simeri.

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Uno scatto dallo spettacolo “LaMagara”

Finalmente riemersa, la storia di Cecilia Faragò è stata anche oggetto di tesi di laurea, in specie di studenti delle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze della comunicazione.
Di Cecilia Faragò, infine, dal 2001 porta il nome un parco pubblico a Soveria Simeri, comune in cui da qualche anno si svolge una rievocazione storica che coinvolge molti giovani volontari del paese, artigiani, musicisti e ballerini folk e un po’ l’intera popolazione. La storia di una comunità illuminata che si riappropria di un pezzo della propria memoria, che restituisce la voce a una sua figura storica: «la voce di un passato che bussa alle nostre mura, fino a sgretolarle».

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