Delrio: «La durata della guerra dipende da noi. E basta con l’ideologia del mercato»

L'ex ministro parla del conflitto in Ucraina e del ruolo degli Stati Uniti in Europa. Boccia gli aumenti della spesa militare e chiede alla politica un'assunzione di responsabilità. Per cambiare gli scenari geopolitici, ma anche quelli economici

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Graziano Delrio rappresenta bene quel misto di concretezza e di valori che esprime la terra e la cultura emiliana. Nato a Reggio Emilia sessantadue anni fa, è deputato per il Pd dal 2018. Dei dem è stato anche capogruppo alla Camera dei deputati per i primi tre anni della legislatura corrente.
Nella sua esperienza politica, il territorio ha sempre rappresentato una dimensione di primario rilievo, che ha però sempre unito ad una visione di carattere generale.

È stato sindaco di Reggio Emilia dal 2004 al 2013, ricoprendo anche l’incarico di presidente dell’ANCI da ottobre 2011 ad aprile 2013. Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie nel governo Letta, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 2015 al 2018, prima nel governo Renzi e poi riconfermato in carica nel governo Gentiloni. Nel governo Renzi ha rivestito anche la carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, prima della sua nomina a ministro.
Lo incontriamo a Napoli, nel corso della presentazione del libro L’illusione liberista (Laterza) di Andrea Boitani.

Quali riflessioni induce il volume di Andrea Boitani?

«L’ideologia del mercato offusca i dati di realtà. Nuotiamo, ormai da decenni, inconsapevolmente in questo schema di pensiero, e non ci accorgiamo nemmeno più che si tratta di una costruzione ideologica. Abbiamo perduto la capacità di guardare criticamente ai guasti che questo approccio, non solo economico, ha causato, e sta causando, alla vita delle nostre comunità.

Viviamo tempi di guerra: quali implicazioni e quali lezioni possiamo trarre dalle terribile tragedia ucraina?

«Dobbiamo innanzitutto tornare a prendere su noi stessi il carico delle responsabilità. La durata della guerra dipende da noi, da nostri comportamenti, dalle idee che siamo in grado di mettere in campo, dal rifiuto della rassegnazione. Sentiamo dire in questi giorni che sarà un conflitto destinato a durare anni. Non possiamo accettarlo passivamente. Esistono forze certamente interessate alla lunga durata della guerra: i mercanti di armi, i nemici delle democrazie, i suscitatori di odio».

Come possiamo riprendere il mano il nostro destino? Da quali temi occorre ripartire per restituire protagonismo alla politica?

esercito-ue«L’aumento delle spese militari di ogni Paese è un obiettivo totalmente improduttivo, non risponde affatto alle logiche di difesa dei territori o di sostegno ai resistenti ucraini. Non ho votato per il 2% del Pil destinato alle spese militari. L’ho fatto perché responsabilità della politica è costruire coerenza tra strumenti e fini. Oggi il fine primario per noi è costruire gli Stati Uniti d’Europa, e quindi mettere in campo anche un esercito comunitario».

Cosa cambia se si adotta questo angolo visuale sulle priorità?

«Se si persegue questo obiettivo, lo strumento non può essere un aumento generalizzato delle spese militari, perché ci sarà da effettuare un enorme lavoro di razionalizzazione della spesa, che consentirà di disporre di un esercito maggiormente efficiente e tecnologico, con un minor dispendio di risorse economiche. Lo strumento militare deve essere orientato rispetto ai fini. Se non abbiamo chiarezza sui fini, tutto diventa confuso».

Possiamo cercare di diradare almeno alcune delle ombre?

«Lo scenario geopolitico è completamente cambiato, e non ce ne siamo accorti. Stiamo ancora subendo passivamente decisioni di altri, piuttosto che diventare padroni del nostro destino. Da diversi anni gli Stati Uniti stanno disimpegnandosi dallo scacchiere europeo, e chiedono continuamente un consistente aumento di spese militari da parte della Unione Europea».

Quali sono le implicazioni di questo orientamento?

«Dietro questa decisione c’è la volontà americana di smobilitare in questo quadrante per dedicare tutte le energie al contesto del Pacifico, al confronto con la Cina che è considerata la potenza emergente più pericolosa per l’egemonia statunitense. È questa la ragione che ha indotto gli USA a considerare la Russia come una potenza di media grandezza, suscitando un ritorno di fiamma del nazionalismo russo».

Joe Biden e Xi Jinping

Dove stanno le matrici ideologiche che inducono la Russia alla invasione della Ucraina?

«Dietro a Putin c’è una ideologia non solo economica, ma anche religiosa. Trent’anni fa, un sacerdote ortodosso ucraino mi spiegò che la Russia ha sempre assorbito i mali del mondo: prima con Napoleone, poi con Hitler ed infine con l’ideologia tecno-economica. Dobbiamo stare attenti: la Russia è parte dell’Europa come l’Ucraina, l’immagine riflessa del nostro specchio. La sua anima resta collegata agli sviluppi della società occidentale».

C’entra qualcosa il neoliberismo in tutto quello che sta accadendo?

«Il mercato, da mezzo, è diventato fine. I prezzi non sostituiscono i valori morali. Se tutto diventa prezzo, o prestazione, i valori crollano, e si afferma il relativismo basato sul perseguimento della utilità privata. Nella storia delle idee il primato della sfera collettiva era chiaramente definito.
Per Aristotele, l’obiettivo era la ricerca della felicità per la città, oggi la felicità è diventata la ricerca della massima utilità individuale. Abbiamo messo al centro della nostra vita sociale l’homo oeconomicus, non più l’homo sapiens. La differenza è abissale: mentre per il primo funziona solo il meccanismo della competizione sfrenata guidata dall’interesse proprio, per il secondo la comunità funziona con il meccanismo della cooperazione».

Come possiamo riequilibrare le distorsioni che l’ideologia neoliberista ha determinato nel tessuto delle nostre società?

«Il mercato ed il capitalismo non vivono senza regole e senza istituzioni. Ce ne siamo accorti che le crisi finanziarie ed economiche che si sono susseguite dal 2007 in avanti, sino ad arrivare poi alla pandemia ed alla guerra. Ora siamo ad un bivio nel quale la politica deve riprendere la sua responsabilità. Sono i valori civili, morali e costituzionali quelli che determinano la qualità della vita collettiva».

Come la politica può lanciare la sfida al mercato senza regole che distrugge valore e valori?

«Dobbiamo tornare a creare legami di comunità e di fiducia, che in realtà servono al mercato ed anche alla società. Gli studi antropologici, da Lévi-Strauss a Marcel Mauss, dimostrano che i gesti di gratuità hanno formato la nostra comunità. Il mercato deve tornare entro il perimetro in cui funziona, accettando le regole di funzionamento che le istituzioni devono sempre presidiare con grande attenzione».

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Claude Lévi-Strauss

Quale ruolo deve svolgere lo Stato in questo ridisegno della responsabilità nella politica?

«Lo Stato deve essere non solo l’arbitro del mercato, per evitare che gli individualismi esasperati costruiscano diseguaglianze intollerabili e monopoli prepotenti. Le istituzioni debbono porre anche le premesse dello sviluppo attraverso la programmazione e la definizione delle rotte lungo le quali debbono dispiegarsi gli strumenti della cooperazione e della fiducia».

Quanto ha giocato, nella storia recente del nostro Paese, un regionalismo sghembo, che ha reclamato poteri senza assumersi responsabilità, oltretutto dispiegando sui territori una offerta di servizi sociali ad alto tasso di variabilità?

«Il valore dell’autonomia non è in discussione. Autonomia però significa responsabilità maggiori e vicinanza in un quadro di diritti esigibili comuni a tutti i territori. Non anarchia e inefficienza».

Perché non ha funzionato l’istituzione della città metropolitana, che pure coglieva l’esigenza di offrire maggiori strumenti di governance alle aree vaste che si erano sviluppate attorno alle principali città del nostro Paese? Alla legge Delrio serviva anche un sistema di elezione diretta del sindaco metropolitano, oppure serviva anche altro ?

«Dopo 40 anni di discussione la legge istitutiva delle città metropolitane è arrivata. Prevedeva già la possibilità delle elezione diretta. Perché le leggi abbiano effetto bisogna crederci, e continuare a lavorarci in spirito cooperativo e non competitivo fra i comuni».

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Le città metropolitane d’Italia

Quando il Mezzogiorno è cresciuto più del resto del Paese, c’è stato – tra metà degli anni Cinquanta ed inizio degli anni Settanta del secolo passato – il miracolo economico italiano. Poi, con la riapertura della forbice delle diseguaglianze territoriali, il calabrone italiano ha smesso di volare, è il declino è diventata la nuova parabola italiana. Come possiamo far tornare il Mezzogiorno un protagonista della ripresa civile ed economica del nostro Paese?

«Sono convinto che il Mezzogiorno sia il vero motore per uno sviluppo duraturo del nostro Paese. La scommessa si vince nel rafforzamento delle istituzioni pubbliche a partire da scuola ed università. Un sistema sanitario efficace e vicino, è prerequisito allo sviluppo dell’impresa sostenibile che anche al Sud può giocare con i nuovi fondi del Next Generation un ruolo propulsivo al benessere dei territori.
Va fermato subito l’esodo del capitale umano. I tanti giovani che emigrano devono poter trovare un sistema, anche pubblico, forte, che offra loro opportunità per una vita dignitosa».

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