Battaglie di civiltà in carcere. Così le chiamano quanti, a parole, si preoccupano della sorte degli “ultimi”, ma poi si voltano dall’altra parte quando qualcuno, davvero, prova a sedersi dal lato sbagliato, nel posto più buio della società, per dare voce e diritti a chi non ne ha. Sandra Berardi, attivista storica della sinistra cosentina, affronta questo conflitto da almeno 15 anni. Cioè da quando con la sua associazione, ha cominciato a occuparsi delle condizioni di vita dei detenuti.
Ha scoperto un universo di piccoli e grandi abusi, una costellazione di persone e storie che, con grande fatica, cerca di far emergere dal mondo di sotto. E che testimoniano come la Costituzione venga spesso usata come vessillo retorico per essere poi calpestata proprio da chi rappresenta lo Stato nei suoi anfratti più popolati ma meno visibili.
Com’è si è incastrata la tua storia personale con la nascita di Yairaiha Onlus?
«La storia di Yairaiha viene da lontano ed è trasversale a molte delle istanze sociali che maturano in contesti di marginalità. Addirittura la lotta per la casa parte da una lotta vincente di Yairaiha. Tutte le lotte sono “totalizzanti”, almeno per quanti ci credono e vi si dedicano con impegno. Sicuramente mantenere rapporti epistolari con centinaia di persone in carcere non è semplice. Spesso ti porta ad interiorizzare le problematiche che ti vengono sottoposte, ma l’aspetto più frustrante è il muro di gomma che ti trovi davanti il più delle volte».

Ricordi la prima volta che hai incontrato un detenuto in un carcere?
«È stato nel 1997. Era il carcere minorile di Catanzaro, dove poi ho fatto la volontaria per 8 anni. Nel 2005 ho avuto modo di entrare nelle carceri per adulti: un mondo a parte in tutti i sensi. Nel minorile il “sovraffollamento” era di attività e di volontari. L’abbandono, il degrado, il tempo vuoto della pena, l’assenza di relazioni e finanche le mozzarelle scadute che ho visto negli adulti ha fatto sì che nascesse un’associazione che lottasse per i diritti dei detenuti».
Decine di vostre denunce non sono bastate. C’è voluto un video “virale” perché tutta Italia si accorgesse di cosa fosse successo a Santa Maria Capua Vetere. E probabilmente non solo lì. Quanto è difficile tentare di rompere ogni giorno quel muro di gomma?
«Per noi il video è stato solo un’ulteriore conferma di quanto già sapevamo e denunciamo da 15 mesi con il sostegno di pochi giornali (Il Dubbio e Il Riformista). Immagini analoghe sono andate in onda mesi fa, riferite ad un episodio del 2018 nel carcere di San Gimignano (inchiesta aperta a seguito di nostra denuncia pubblica). Però non suscitarono l’indignazione che invece è scaturita, finalmente, da queste immagini».
Come si lotta contro la retorica della colpa?
«Quando si parla di carcere e diritti violati la maggior parte delle persone vede i detenuti con molta diffidenza, presuppone che “se stanno in carcere qualcosa devono aver fatto”. I sentimenti che accompagnano molti sono infarciti di pregiudizi e da una buona dose di “retorica della colpa” secondo la quale chi delinque lo fa perché è nato delinquente e vuole delinquere. Periodicamente organizziamo incontri tematici in collaborazione con università, camere penali, circoli culturali, ultimamente anche online. Riscontriamo un grande interesse anche tra la gente “comune” e non solo tra gli addetti ai lavori, tra gli studenti o tra i familiari».
I media orientano l’opinione pubblica verso una deriva giustizialista?
«Il problema principale sta nella cattiva informazione che contribuisce a formare l’opinione pubblica in chiave giustizialista e nelle infelici uscite di certi politici che pur di cavalcare i sentimenti che toccano la “pancia del paese” difendono a spada tratta i torturatori. La maggior parte dei media tratta l’argomento carcere in maniera tale che la società non vada oltre l’equazione: “Ha sbagliato? Si buttino le chiavi!”. La politica ha delegato la magistratura a gestire e regolare i meccanismi socio-economici determinando un approccio penalistico alla risoluzione di problemi che necessiterebbero di risposte altre».
Ora in molti vi cercano, ma le responsabilità dei media nella spettacolarizzazione della cronaca sono innegabili. Quante colpe hanno anche la sinistra italiana, magari quella “radicale”, e il mondo “impegnato” della cultura, per aver snobbato la questione delle carceri?
«Le forze politiche di “sinistra” hanno avuto la capacità di disperdere un patrimonio di temi e lotte che gli erano proprie per inseguire le forze politiche reazionarie sul piano del giustizialismo. L’ultimo esempio ci è dato dall’affossamento del progetto di riforma Orlando per paura di perdere consenso elettorale. Dopodiché abbiamo assistito alla cancellazione di alcuni temi. Basti pensare al vergognoso silenzio da parte di tutto l’arco parlamentare sui 13 morti e sulle mattanze nelle carceri della scorsa primavera. Non più di tre parlamentari hanno presentato interrogazioni su sollecitazione delle associazioni».
Solo la sinistra radicale si batte per un carcere più umano?
«La cosiddetta “sinistra radicale” ha ben presente la questione carceraria, ma sono lontani i tempi in cui entravamo quotidianamente nelle carceri, quando avevamo parlamentari “nostri” come Haidi Giuliani o Francesco Caruso. Non a caso l’ultima parlamentare con la quale abbiamo collaborato è stata Eleonora Forenza (Prc), che purtroppo non è al governo. I parlamentari attuali hanno rinunciato completamente al diritto/dovere di ispezionare le carceri. Quanto al mondo della cultura e dei movimenti, quelli che continuano a mettere genuinamente al centro delle proprie azioni la questione carceraria sono pochi. Molti di più, invece, sono quelli che speculano sull’esistenza delle carceri e dei detenuti spesso destinatari di progetti che soddisfano l’ego dei proponenti più che i bisogni dei destinatari».
Qual è la storia che più ti ha segnato in tutti questi anni?
«Purtroppo sono tante, e non saprei davvero da quale iniziare. Tante si sono concluse in modo tragico. La storia di Carmelo Terranova è emblematica: morto a settembre dello scorso anno nel carcere di Parma dove era stato riportato a seguito del decreto Bonafede, varato in tutta fretta per placare le ire di Giletti e del falso scoop sulle “scarcerazioni dei boss”. Ma lui non era uscito per effetto della circolare del Dap. Aspettava già dall’inverno precedente l’esito dell’istanza di sospensione della pena per motivi di salute».
Tanti hanno i giorni contati in carcere per motivi di salute…
Carmelo lo avevamo incontrato per ben due volte, a distanza di tre anni, nel carcere di Bari, assieme a Forenza; e prima ancora nel carcere di Palmi e di Siano. La sua vita, da tempo, dipendeva da una macchina per l’ossigeno giorno e notte. Negli anni passati gli erano già stati accordati i domiciliari per motivi di salute; domiciliari che gli furono revocati per le visite dei parenti, peraltro nemmeno pregiudicati. Nel 2019 segnalavamo per iscritto che aveva tre bypass ed era sottoposto ad ossigenazione continua. Ci siamo soffermati a lungo nella sua cella prima e nel corridoio poi, ci mostrò orgoglioso tutta la rassegna stampa sull’attesa delle sentenze di Strasburgo e delle Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Le aspettava fiducioso, come tanti. Riusciva ad avere i nostri articoli tramite una parente perché le sue lettere indirizzate all’Associazione Yairaiha, e viceversa, si smarrivano “misteriosamente”. Il comandante che ci accompagnava si sorprese ma non poté smentire il controllo incrociato».
E poi come è andata a finire la storia di Carmelo?
Le speranze di Carmelo avevano il fiato corto. Un suo compagno ci prese da parte dicendoci che anche se non lo dava a vedere, non gli rimaneva molto da vivere. I suoi polmoni erano ormai esangui e ridotti notevolmente nel volume. Carmelo sapeva che non ce l’avrebbe fatta a superare in vita l’ergastolo ostativo. Ci volle salutare con un forte abbraccio e un bacio sulle guance, come si fa con un amico che già si sa di non poter rivedere mai più, e la promessa che ci sarebbe venuto a trovare appena libero. Ma non è andata così».
Come spiegheresti al papà di un ragazzino innocente ucciso “per sbaglio” da un killer di ‘ndrangheta, e che invoca le pene più dure per gli assassini del figlio, la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo ostativo?
«Non sono indifferente davanti a un simile dolore, ma la giustizia di Stato si propone di superare la vendetta. E se la condanna diventa più crudele del reato che si vuole punire non è più giustizia, ma vendetta. Il dolore delle vittime sembra essere diventato un elemento che concorre a stabilire la pena. Sono d’accordo, invece, con Fiammetta Borsellino quando afferma che il dolore dei familiari delle vittime è soggettivo e che per prevenire i fenomeni criminali bisogna intervenire a monte prevenendo la formazione di culture criminali che oggi, nonostante la propaganda securitaria e antimafia, rimane molto una dichiarazione di intenti senza che vi sia applicazione concreta. Poi c’è un’altra cosa che mi sono sempre chiesta, non trovando risposta. Perché la morte provocata in contesto criminale pesa di più di una morte causata da un altro fenomeno (guida in stato di ubriachezza, omicidio domestico, malasanità, eccesso colposo di legittima difesa, ecc.)? Un omicidio è un omicidio».
Sostenere che si debba abolire il carcere come istituzione a molti sembra un’utopia. Come ci si dovrebbe comportare nei confronti di chi commette atti terribili? Qual è la strada che voi indicate?
«Partiamo dalla nostra Costituzione. Essa non prevede il carcere come pena a fronte dei reati commessi, ma percorsi di accompagnamento e di ricostruzione dei legami sociali infranti con il reato. Poi ci sarebbe da rivedere il codice penale, ristabilire cosa è reato. In Italia abbiamo oltre 5000 fattispecie penali, ma non tutti possono essere considerati reato. Molti sono reati di sopravvivenza puniti penalmente, ad esempio i parcheggiatori abusivi.
Quanto incidono le politiche proibizioniste sul sovraffollamento delle carceri?
«Penso all’ipocrisia di fondo delle politiche proibizioniste rispetto all’uso e consumo delle droghe che alimenta condotte violente e criminali per il controllo del mercato. Di contro, laddove l’uso e il commercio delle droghe è stato legalizzato i benefici sono stati, e continuano ad essere, molteplici. Si va dalla riduzione del danno in senso farmacologico alla riduzione della violenza e degli scontri tra bande per il controllo del mercato, fino alla chiusura delle carceri per mancanza di “criminali”».
Il carcere ha fallito il suo obiettivo?
«Ritengo che la prevenzione sia alla base di una società sana e libera dal crimine. Non abbiamo formule, ma sappiamo con certezza che il carcere ha fallito il suo obiettivo. E non è con l’introduzione di nuovi reati o con l’inasprimento delle pene che si ottengono risultati positivi. Di contro, ci sono tanti esempi, come le comunità educanti o la giustizia riparativa, che aiutano le persone a comprendere e superare il male fatto e subito».