Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

Quarantacinque anni fa un aereo cadeva sulle montagne della Sila. Era un Mig libico, la cui storia segreta è legata a una delle stragi di questo Paese, quella dell'aereo Itavia precipitato a poca miglia da Ustica. Quel giorno nei cieli italiani ci fu una battaglia con 81 vittime innocenti e di cui ancora non sappiamo tutto. Questo è il racconto sospeso tra la memoria, la cronaca e le suggestioni antropologiche

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Ero un bambino di undici anni nell’estate del 1980. Vivevo a Feruci, una frazione di Trenta, un piccolo paese incastonato tra le colline sopra Cosenza, dove il tempo scorreva lento, scandito dal sole cocente e dal chiacchiericcio dei compaesani.

Era un pomeriggio come tanti, di quelli in cui il caldo ti spinge a cercare l’ombra. Giocavo con i miei amici – Francesco, Michele, Gianluca, Enzo – tra i vicoli stretti, con le nostre risate che rimbalzavano tra le case di pietra. Ogni tanto ci fermavamo a riprendere fiato, seduti sui gradini della chiesa vicino casa mia. Lì, sotto l’ombra del campanile, c’era Zu Franciscu, che tutti chiamavano, chissà perché, “Mappappu”. Seduto con le sue canne di vimini, le sue mani nodose intrecciavano panieri che sembravano opere d’arte.

Ogni tanto alzava lo sguardo, borbottava qualcosa e tornava al suo lavoro, mentre noi lo osservavamo con una sorta di reverenza. Quel giorno, però, l’aria era diversa. Non era solo il caldo soffocante di giugno o il ronzio delle cicale. Le voci degli adulti erano più concitate, i toni più gravi. Sentivo frammenti di discorsi su un aereo caduto, un Mig libico, dicevano, precipitato a Castelsilano, non lontano da noi. La notizia arrivava dai telegiornali, quelli che i grandi guardavano la sera davanti ai vecchi televisori a tubo catodico. “Un aereo militare”, “i libici”, “la strage di Ustica”: parole che, per me, erano solo pezzi di un puzzle troppo complesso per un bambino di undici anni. Seduto sui gradini, con il rumore delle canne di Zu Franciscu in sottofondo, ascoltavo i grandi.

Le autorità e i servizi controllano l’area dove è caduto l’aereo libico

Quell’aereo caduto sulle montagne 

Parlavano di quel MiG caduto sulle montagne, qualcuno lo collegava a un altro disastro, un aereo di linea scomparso nel mare vicino Ustica. Non capivo tutto, ma parole come “guerra”, “mistero”, “aereo abbattuto” accendevano la mia immaginazione. Nella mia mente di bambino, vedevo aerei sfrecciare nel cielo e scoppi improvvisi, ma tutto sembrava lontano, quasi irreale, anche se Castelsilano – appena oltre San Giovanni in Fiore, verso Crotone – non era poi così distante. Potevo quasi immaginarlo, quell’aereo, precipitare tra le colline del marchesato. Zu Franciscu, con il suo cappello di paglia sgualcito, scuoteva la testa. “Cose grosse, troppo grosse,” borbottava, senza smettere di intrecciare. Non so se capisse davvero, ma il suo tono tradiva inquietudine. I miei amici continuavano a giocare, ma ogni tanto si fermavano, incuriositi. “Ma che ci faceva un aereo libico qui?” chiese uno di loro. Nessuno seppe rispondere.

Il pilota e l’ombra scura della guerra

Io mi immaginavo un pilota straniero, con una divisa piena di medaglie, perso in un cielo che non era il suo. Quella sera, a casa, la televisione era accesa, e i miei genitori parlavano a bassa voce, come se non volessero farsi sentire. “Strage di Ustica“, “Il Mig di  Castelsilano”: parole che si mescolavano al profumo dei pomodori freschi, al suono delle posate, alla normalità di una serata estiva. Eppure, qualcosa era cambiato. Per la prima volta, il mondo dei grandi mi sembrava più complicato. Non era solo il gioco nei vicoli o i panieri di Zu Franciscu. C’era qualcosa di più grande, che non capivo ma che sentivo pesare. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, quel ricordo è ancora vivido. Non so se il MiG di Castelsilano fosse davvero legato alla strage di Ustica, come dicevano i grandi. So solo che per un bambino di undici anni, seduto sui gradini di una chiesa, con il suono delle canne di vimini e le voci preoccupate dei compaesani, quel giorno d’estate del 1980 fu il primo in cui il mondo sembrò improvvisamente più grande, più misterioso, e forse più spaventoso.

Un frammento identificativo di quel che restava dell’aereo da guerra

Il mistero custodito dalla Timpa delle Magare

Il mistero della Timpa delle Magare, dove il MiG-23 libico precipitò, resta vivo. A Castelsilano alcuni testimoni raccontarono di aver visto un aereo volare basso, seguito da pennacchi di fumo, prima del silenzio e del bagliore delle fiamme.

Accanto ai rottami, il corpo del pilota, Ezzedin Fadah El Khalil, in avanzato stato di decomposizione, suggeriva una morte risalente forse al 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, quando un DC-9 Itavia si inabissò nel mar Tirreno con 81 persone a bordo.

La Timpa delle Magare non è solo un luogo fisico. Nel dialetto calabrese, “magare” significa “streghe”, e il nome evoca leggende di donne sapienti, spiriti della montagna, custodi di segreti antichi. Un aereo militare straniero che precipita in un posto così non è solo un evento: è un’interruzione, uno strappo nel tessuto della comunità. Le autorità parlarono di un malore del pilota, ma le incongruenze – il corpo decomposto, le testimonianze discordanti, i fori sulla fusoliera – alimentano teorie di complotti e battaglie aeree. Secondo il giudice Rosario Priore, che condusse un’inchiesta monumentale, il DC-9 Itavia fu abbattuto durante un’azione militare, forse per intercettare un aereo libico che si pensava trasportasse Gheddafi.

Il giudice Rosario Priore

Alcuni testimoni parlarono di due caccia che inseguivano un terzo velivolo, lungo una rotta che da Ustica portava a Castelsilano. Il MiG potrebbe essere stato abbattuto o essersi schiantato durante quell’azione, finendo tra i boschi della Sila. Per gli abitanti di Castelsilano, la Timpa delle Magare è diventata un luogo della memoria, ma anche del silenzio. Come in molte comunità rurali, hanno imparato a convivere con i segreti, a non fare troppe domande.

Tutta la verità ancora manca, ma forse a saperla sono le “magare”

Ripensando a quel bambino di undici anni, oggi gli occhi di adulto e la consapevolezza di come le cose non siano come appaiono, mi restituiscono l’impressione che la Timpa delle Magare non è sia solo un spazio geografico, ma un luogo simbolico. È un crocevia di narrazioni, dove la memoria collettiva si intreccia con il trauma di un evento inspiegabile. È un luogo liminale, sospeso tra realtà e mito, dove la verità sbiadisce e si sottrae allo sguardo degli uomini rifugiandosi tra le ombre delle “magare”

 

Un frammento scelto dal film Il Muro di gomma, di Marco Risi: le scene dell’indagine del giornalista sull’altopiano silano, dove il Mig era precipitato.

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