Immaginate di svegliarvi ogni giorno in una terra dove l’eco della guerra è la colonna sonora della vita, dove i muri non sono solo di cemento, ma barriere invisibili di paura e sospetto che dividono cuori e menti. In questo paesaggio irto di dolore, dove la speranza sembra un fiore calpestato, ci sono uomini e donne israeliani che scelgono la via più difficile: quella del dissenso, della mano tesa, della costruzione ostinata della pace. Non sono eroi da copertina, ma persone comuni – madri, padri, figli, soldati che hanno visto troppo, rabbini che interrogano la loro fede, medici che onorano il loro giuramento – che hanno deciso di non voltare le spalle all’umanità dell’altro, il palestinese, e alla propria. Le loro organizzazioni sono fari nella nebbia, spesso alimentati solo dalla fiamma della loro incrollabile coscienza.
Gli israeliani che dicono basta alla guerra
Il loro cammino è lastricato di sfide che spezzerebbero chiunque non fosse sorretto da una profonda convinzione etica. Ogni giorno, si scontrano con un’opinione pubblica spesso indifferente quando non apertamente ostile, plasmata da anni di conflitto e da narrazioni che dipingono l’altro come una minaccia perenne. Essere una voce per la pace, in un contesto simile, significa spesso essere etichettati come ingenui, nel migliore dei casi, o come traditori, nel peggiore. Significa sentire il peso dello stigma, talvolta l’isolamento persino all’interno della propria cerchia sociale, e affrontare campagne di delegittimazione orchestrate da chi ha interesse a mantenere vivo il fuoco del conflitto.

Il difficile compito di essere voce di pace
Pensiamo a chi opera in B’Tselem. Questi ricercatori, israeliani e palestinesi fianco a fianco, non si limitano a sfogliare documenti negli archivi. Percorrono strade polverose, entrano in case segnate dal lutto o dalla minaccia della demolizione, raccolgono con pazienza certosina le schegge di verità dalle voci spezzate delle vittime o dai testimoni oculari. Il loro lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati è un atto di accusa implacabile, ma anche un disperato tentativo di squarciare il velo della negazione che avvolge parte della società israeliana. E quando, dopo anni di meticolose analisi, arrivano a definire il sistema vigente come “apartheid”, lo fanno con il peso di chi sa che quella parola è una ferita aperta nella storia, ma necessaria per nominare l’ingiustizia. La loro ricompensa? Spesso, accuse infamanti e tentativi di minarne la credibilità internazionale, da cui, paradossalmente, dipende gran parte del loro sostegno.
Anche ex militari tra i volontari
Poi ci sono i soldati, giovani uomini e donne gettati nel crogiolo dell’occupazione. Alcuni ne escono induriti, altri con cicatrici invisibili nell’anima. È da queste ferite che nasce Breaking the Silence. Gli ex-militari che animano questa organizzazione hanno sentito sulla loro pelle il corto circuito morale tra gli ordini ricevuti e i valori su cui credevano si fondasse il loro paese. Rompere il silenzio, per loro, è un imperativo etico, un modo per liberarsi di un fardello e, contemporaneamente, per costringere la propria società a guardare ciò che preferirebbe ignorare. Raccontano la quotidianità degradante dei checkpoint, gli ordini ambigui, la pressione a disumanizzare l’altro per poterlo controllare. E mentre lo fanno, diventano bersaglio di una virulenta campagna d’odio da parte di chi li accusa di lavare i panni sporchi in pubblico, di indebolire l’esercito, di fare il gioco del nemico. Eppure, continuano, organizzando tour a Hebron per mostrare con i propri occhi la realtà sul campo, perché la verità, per quanto dolorosa, è il primo passo verso un possibile cambiamento.

Avvocati per difendere i diritti dei palestinesi
La battaglia per i diritti si combatte anche nelle aule di tribunale, sebbene spesso con la frustrante consapevolezza che la giustizia per i palestinesi è una chimera. Organizzazioni come Yesh Din (“C’è una legge”) e Adalah (Il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele) si ostinano a percorrere questa via irta di ostacoli. Forniscono assistenza legale a chi ha subito espropriazioni di terre, violenze da parte dei coloni o abusi da parte delle forze di sicurezza. Ogni singolo caso seguito è una goccia nell’oceano, ma testimonia la volontà di non arrendersi all’impunità, di affermare che ogni individuo ha diritto alla protezione della legge. I loro rapporti, che documentano la bassissima percentuale di incriminazioni a seguito di denunce palestinesi, sono un atto d’accusa verso un sistema che troppo spesso fallisce nel suo compito primario.
La costruzione della pace passa attraverso il dialogo
Ma la pace non si costruisce solo con la denuncia e la rivendicazione dei diritti. Si nutre anche di incontri, di dialogo, della faticosa ma indispensabile opera di umanizzazione reciproca. È qui che entrano in gioco realtà toccanti come il Parents Circle–Families Forum. Immaginate il coraggio di queste famiglie israeliane e palestinesi, unite dallo stesso, lancinante dolore per la perdita di una persona cara a causa del conflitto. Invece di lasciarsi consumare dall’odio e dal desiderio di vendetta, hanno scelto la via più impervia: quella di incontrarsi, di ascoltare la narrazione dell’altro, di piangere insieme le proprie vittime. Ogni loro incontro è un piccolo miracolo di riconciliazione, una dimostrazione vivente che il nemico ha un volto, una storia, un dolore identico al proprio. Non offrono soluzioni politiche preconfezionate, ma qualcosa di forse ancora più fondamentale: la guarigione delle ferite del cuore, senza la quale nessuna pace potrà mai essere duratura.

Ex combattenti e medici costruttori di pace
Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono i Combatants for Peace, ex-combattenti di entrambe le parti che, dopo aver conosciuto l’orrore della violenza, hanno deciso di deporre le armi per diventare costruttori di pace. Il loro percorso di trasformazione personale è la testimonianza più potente che un’alternativa è possibile. Organizzano azioni congiunte nonviolente, proteggono i pastori palestinesi dalle aggressioni, riparano scuole. E ogni anno, la loro Cerimonia Congiunta del Giorno della Memoria, in cui israeliani e palestinesi commemorano insieme tutte le vittime del conflitto, è un pugno nello stomaco del nazionalismo escludente, un faro di speranza che indica la possibilità di un lutto condiviso e, quindi, di un futuro condiviso. Ci sono poi coloro che la solidarietà la praticano sul campo, con gesti concreti che alleviano le sofferenze quotidiane. I medici e volontari di Physicians for Human Rights–Israel portano cure e assistenza sanitaria nelle comunità palestinesi più isolate o a chi, come i migranti a Tel Aviv, è invisibile per il sistema.
Rabbini al fianco dei contadini palestinesi
I rabbini di Rabbis for Human Rights, fedeli ai principi più profondi della loro tradizione religiosa che impongono di perseguire la giustizia, si frappongono fisicamente tra i coloni e i contadini palestinesi durante il raccolto delle olive, diventando scudi umani per proteggere un diritto elementare: quello al lavoro e al sostentamento. Questi atti di coraggio quotidiano non cambieranno forse gli equilibri geopolitici, ma riaffermano, giorno dopo giorno, il valore insopprimibile della dignità umana. E mentre alcuni lavorano sul campo, altri, come gli attivisti di Peace Now, da decenni si dedicano all’infaticabile lavoro di advocacy politica, cercando di mantenere aperta la prospettiva di una soluzione a due stati, monitorando l’espansione degli insediamenti che, come un cancro, divora la terra e la possibilità stessa di una pace futura. È una lotta impari, contro forze politiche soverchianti e un’apatia diffusa, ma la loro perseveranza è la testimonianza di chi non si rassegna al “conflitto eterno”.

Vivere da pacifista, da difensore dei diritti umani in questo contesto, è una scelta che ha un costo elevatissimo. Non si tratta solo delle minacce o delle intimidazioni. È il peso di sentirsi minoranza, di predicare nel deserto, di vedere le proprie motivazioni più profonde distorte e calunniate. È la fatica di reperire fondi, spesso provenienti dall’estero e per questo usati come arma per accusarli di essere “agenti stranieri”, in un paradosso crudele che vede il sostegno internazionale, necessario alla loro sopravvivenza, trasformarsi in un capo d’accusa.
Lavorare per la pace è una forma di resistenza
Eppure, in queste donne e in questi uomini, brilla una luce che nessuna campagna d’odio, nessuna delusione, nessuna minaccia sembra poter spegnere. È la luce della coscienza, della responsabilità verso l’altro, della convinzione ostinata che un futuro diverso non solo è possibile, ma è un dovere morale perseguirlo.
Sono loro, con il loro impegno quotidiano, spesso misconosciuto e irto di pericoli, a tenere aperta una fessura di speranza nel muro dell’odio e della violenza. Sono i seminatori di un domani che, forse, non vedranno, ma per il quale continuano a lottare, con la tenacia di chi sa che anche il viaggio più lungo inizia con un piccolo, coraggioso passo. La loro esistenza e la loro resistenza sono, in sé, un messaggio potente: l’umanità può e deve trovare un’altra via.
Tommaso Scicchitano