di Tommaso Scicchitano
L’Italia, terra di approdi e crocevia di storie millenarie, si confronta da decenni con il complesso mosaico dell’accoglienza a migranti e richiedenti asilo. Al centro di questo sforzo, c’è un sistema con un nome che è una promessa: SAI, Sistema di Accoglienza e Integrazione. Immaginatelo come un tentativo ambizioso di offrire non solo un tetto e un pasto, ma un sentiero verso una nuova vita, una “accoglienza integrata” che punta a tessere nuove trame nel tessuto sociale italiano. Ma come ogni grande impresa umana, il SAI cammina su un filo teso tra ideali luminosi e ombre insidiose. E la Calabria, con le sue coste bagnate da arrivi e il suo entroterra ricco di umanità ma segnato da fragilità, diventa uno specchio impietoso di questa realtà a due facce.

Quando l’accoglienza diventa comunità
Nelle sue aspirazioni più alte, il SAI è un faro. Non più grandi centri isolati, ma una rete di “accoglienza diffusa”: piccoli appartamenti o strutture disseminate nei comuni, dove le persone possono iniziare a ricostruire la normalità. Qui, uomini, donne e bambini fuggiti da guerre, persecuzioni o miseria, incontrano gli “artigiani dell’accoglienza”: operatori sociali, psicologi, mediatori culturali, insegnanti di italiano. Professionisti altamente qualificati che, con dedizione spesso eroica, li accompagnano nell’imparare la lingua, nel comprendere i propri diritti e doveri, nell’iscrivere i figli a scuola, nell’orientarsi verso una formazione o un lavoro.
Un meccanismo virtuoso
Quando questo meccanismo funziona, i progetti SAI diventano linfa vitale per i territori, specialmente per quei piccoli borghi che rischiano lo spopolamento. Le case abbandonate tornano a vivere, le scuole riaprono, si creano scambi culturali che arricchiscono tutti. Si costruiscono ponti, si abbattono muri di diffidenza, si sperimenta una micro-società dove l’altro non è una minaccia, ma una risorsa.

Quel sistema inceppato che logora speranze e operatori
Purtroppo, la macchina del SAI, pur progettata con nobili intenti, spesso si inceppa. La prima ombra è quella di un’instabilità normativa cronica. Decreti che si susseguono, cambiando le regole del gioco, restringendo o allargando le maglie dell’accesso, creando un’altalena legislativa che non dà tregua né agli enti locali né alle cooperative che gestiscono i progetti. Immaginate di dover continuamente riprogrammare il vostro lavoro, la formazione del personale, la documentazione, con la spada di Damocle di un nuovo cambio di rotta.

Il male della burocrazia
Poi c’è il labirinto della burocrazia. La rendicontazione delle spese, pur necessaria per la trasparenza, diventa un “fardello sproporzionato”, che assorbe tempo ed energie preziose che potrebbero essere dedicate alle persone. E i budget, spesso rigidi come corsetti, lasciano poca flessibilità per rispondere a imprevisti o a bisogni specifici.
Il lavoro degli operatori tra sofferenza sociale e precariato
Ma l’ombra più dolorosa è forse quella che si proietta sulle condizioni dei lavoratori. Quegli “artigiani dell’accoglienza” sono spesso giovani laureati, mossi da “principi personali” e forte motivazione, ma costretti a equilibrismi con stipendi non sempre adeguati al ruolo e alle responsabilità, contratti part-time diffusi, carichi di lavoro pesanti e il rischio costante di burnout. Un lavoro che logora, a contatto quotidiano con la sofferenza e la vulnerabilità, e che meriterebbe ben altro riconoscimento. A questo si aggiungono i ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione, una “piaga sociale” che mette con l’acqua alla gola le cooperative, costringendole ad anticipare stipendi e forniture per mesi, minandone la sopravvivenza economica. E infine, la volontarietà dell’adesione dei Comuni al SAI crea una copertura “a macchia di leopardo”, lasciando ampie zone scoperte e alimentando il sistema parallelo dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), spesso meno orientati all’integrazione e più soggetti a logiche emergenziali.
La Calabria: uno specchio fedele delle fragilità nazionali
In Calabria, terra di approdi per chi attraversa il Mediterraneo e regione essa stessa segnata da emigrazione e da un tessuto socio-economico fragile, le criticità nazionali si acuiscono e assumono contorni specifici. La regione ospita un numero significativo di progetti SAI, gestiti con passione da cooperative locali. Tuttavia, la Calabria è anche la regione dove il “caos amministrativo e affidamenti diretti” nel sistema di accoglienza più ampio è stato denunciato con forza. Un dato emblematico è quello sui Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA): a fine 2023, si registravano decine di posti letto inutilizzati nei progetti SAI dedicati a loro, mentre altri minori erano ospitati in CAS o addirittura in centri per adulti. Un paradosso che grida inefficienza, specialmente quando si tratta di proteggere i più vulnerabili.
Senza soldi niente accoglienza
Le difficoltà finanziarie degli enti gestori sono palpabili. Storie come quella della cooperativa Rose Blu di Villa San Giovanni, con lavoratori che hanno accumulato mesi e mesi di stipendi arretrati, sono un campanello d’allarme che non può essere ignorato. La rigidità delle tariffe nazionali pro-die, se non adeguata ai costi reali di un contesto come quello calabrese (pensiamo solo ai trasporti in aree interne o alla necessità di un supporto all’integrazione lavorativa ancora più intenso), rischia di strangolare chi opera sul campo con serietà. E poi c’è la “doppia sfida” dell’integrazione socio-lavorativa. Trovare un lavoro e una casa in una regione con alti tassi di disoccupazione, forte presenza di lavoro sommerso e un mercato immobiliare spesso ostile, diventa un’impresa titanica. Il rischio è che l’uscita dal SAI sia dettata più dalla “scadenza del progetto” che da una reale autonomia conquistata, con persone che ricadono nella precarietà.

Barlumi di speranza e resilienza calabrese
Eppure, anche in questo quadro complesso, la Calabria offre esempi di straordinaria resilienza e di accoglienza che funziona. L’eco del modello Riace, con le sue intuizioni sulla rivitalizzazione dei borghi attraverso l’accoglienza e l’integrazione lavorativa in piccole realtà artigiane, pur con le sue vicissitudini e le attuali difficoltà operative dentro il circuito SAI formale, continua a ispirare.
Piccoli fari come il progetto SAI di Vena di Maida (CZ), descritto come un “esempio luminoso” di integrazione, dimostrano che la dedizione degli operatori e il coinvolgimento della comunità possono fare la differenza. L’impegno continuativo di comuni come Corigliano-Rossano nel sistema SAI, o iniziative come il progetto Su.Pre.Me 2 per il contrasto allo sfruttamento lavorativo, sono segnali che un’altra via è possibile.

Un sistema da salvare, per le persone accolte e per chi accoglie
Il Sistema di Accoglienza e Integrazione, in Italia come in Calabria, è un gigante dai piedi d’argilla, un sogno a metà che rischia di svanire sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Per salvarlo, servono interventi strutturali: stabilità normativa, procedure più snelle e flessibili, pagamenti puntuali e tariffe adeguate che riconoscano i costi reali di un’accoglienza di qualità. Serve un sostegno vero agli enti locali e alle cooperative, che sono l’ossatura del sistema.
Ma soprattutto, serve rimettere al centro le persone: la dignità di chi arriva, spesso portando con sé ferite invisibili e la speranza di una vita migliore; e la dignità di chi lavora nell’accoglienza, con una professionalità e un carico emotivo che meritano condizioni di lavoro sicure e gratificanti. Perché un’accoglienza che funziona non è solo un dovere morale o un obbligo di legge: è un investimento sul futuro di tutta la società. E la luce, in fondo a questo percorso, può brillare più forte delle ombre.