di Tommaso Scicchitano
È un onore singolare, quasi sacro, quello di presiedere al rito della democrazia. Per due giorni, un’aula scolastica è diventata un tempio laico: il seggio 12, nella valle di Montalto Uffugo. In questo spazio sospeso, ho avuto il privilegio di essere il custode di un meccanismo delicato e potente, oliato dalla dedizione di persone splendide. Un segretario la cui esperienza era una bussola sicura, scrutatori che non hanno misurato il tempo né la fatica, rappresentanti di lista che hanno deposto le armi della dialettica per impugnare gli strumenti di una collaborazione leale. A sorreggere l’intera impalcatura, la professionalità e la disponibilità assolute dei dipendenti comunali, pronti a rispondere a ogni mia richiesta e a risolvere ogni imprevisto per garantire che la volontà popolare si esprimesse senza il minimo ostacolo. Eravamo davvero un’orchestra intonata, e per questo sento di aver servito il mio Paese nel suo volto migliore.
Il rito del voto e l’importanza del gesto
In questo fluire ordinato di gesti ripetuti – la matita copiativa, il documento, la firma – un’immagine si è scolpita nella mia memoria, trasformando il rito civico in un atto di profonda umanità. Una madre si è avvicinata all’urna tenendo per mano sua figlia, una bambina dai cui tratti somatici traspariva il disegno di un mondo che si incontra, frutto di un amore che ha superato i confini. Con la pazienza che si riserva ai gesti fondativi, la madre le ha spiegato che quel pezzo di carta era un seme, una leva per spostare il futuro.
La madre e la bambina
Poi ha preso la quinta scheda, quella gialla, sulla cittadinanza. “Questa,” le ha sussurrato con una gravità carica d’amore, “è la più importante di tutte”. E ha lasciato che fossero le piccole mani della figlia a compiere l’ultimo passo, a far scivolare quella promessa nell’urna. In quel gesto, ho visto una madre che non depositava un voto, ma piantava una radice per sua figlia nella terra che già chiamava casa.
Lo spoglio e i risultati
Poi è venuto il momento dello spoglio. Il flusso dei votanti si è interrotto, ma le porte del seggio sono rimaste aperte, come la legge vuole. L’aula si è trasformata in un palcoscenico pubblico dove, sotto gli occhi di chiunque volesse assistere, la volontà della nostra comunità stava per essere svelata. Fuori la luce del sole era ancora alta, ma mentre le nostre mani cominciavano a danzare sui tavoli, rovesciando le urne, una notte diversa, più intima e profonda, ha cominciato a scendere dentro di me.
Il prevalere dei Sì, la presenza dei No
Le prime schede gialle erano un canto di speranza. Un “Sì”. Un altro. Un altro ancora. Si è creato un ritmo, una melodia di accoglienza che sembrava la risposta diretta alla preghiera di quella madre. Il mio seggio stava scegliendo, stava disegnando un orizzonte di inclusione. Alla fine, il conto è stato un’onda di speranza: 220 “Sì”. Una vittoria. La testimonianza che in questa piccola porzione d’Italia, la fiducia era più forte del sospetto. Eppure, in questa musica, una nota stonata, insistente, tornava a farsi sentire. Novantasei volte. NO. Una cifra che sulla carta è solo un numero, il residuo di una sconfitta. Ma in quel momento, per me, erano certamente troppi. Novantasei “no” non erano un’opinione politica; erano 96 porte sbattute in faccia a quella bambina. 96 muri eretti contro il suo futuro. Ogni “no” era la negazione di quel gesto d’amore a cui avevo assistito. La luce del sole illuminava la vittoria del “Sì”, ma l’ombra di quei “no” proiettava una notte sullo spirito.
Il quorum mancato
È la strana malinconia di una vittoria locale che si scontra con la desolazione nazionale. Mentre noi contavamo i nostri 220 “Sì”, nel resto del Paese il silenzio di chi non ha votato era assordante, lasciando che il referendum fallisse senza raggiungere il quorum. E anche qui, in questo nostro piccolo successo, quasi cento persone si erano prese il disturbo di venire a dire “no”. Ecco la vera sfida che ci attende. Non la rabbia, ma un’empatica tristezza per quelle 96 paure. La paura di chi si sente fragile, di chi vede il cambiamento non come una promessa ma come una minaccia. Paure reali, che una politica troppo impegnata a contare voti invece che a interpretare anime, si rifiuta di ascoltare.
La speranza che rimane
La vita di quella bambina, la sua storia, sarà più grande e importante dei “no” e dei “sì”, e più forte di una politica colpevole che insegue le paure invece di guidare il Paese. Il suo gesto è stato più che un seme: è stata la miccia di un cambiamento necessario, a prescindere da ciò che in questo momento teme la maggioranza del Paese. Perché la vita, nel suo corso inarrestabile, è sempre più potente dei voti che cercano di contenerla.