Capita frequentemente nel nostro Paese che le riforme si approvino e poi restino per lungo periodo nel cassetto, senza che si riesca per molto tempo a fare alcun passo in avanti. Dalla metà degli anni Ottanta, l’economia meridionale conosce una lunga stagione di arretramento competitivo. Si è spento l’intervento straordinario nel Sud, mentre le imprese pubbliche hanno abbandonato questi territori.
Zes? Una legge con buone intenzioni
Il futuro della industrializzazione nel Mezzogiorno doveva essere consegnato alla istituzione delle zone economiche speciali (Zes). Nel 2017 il governo ha emanato un decreto poi convertito in legge dal Parlamento. È cominciato un dibattito surreale sulla attuazione, perché la legge era sostanzialmente un enunciato di buone intenzioni. Ma era sostanzialmente provo di tutti gli elementi che avrebbero garantito la realizzazione di ciò che si predicava. Era stata realizzata la cornice, il quadro era ancora tutto da dipingere.
Tra qualche mese sarà trascorso un lustro dalla approvazione della legge che ha istituito nelle regioni meridionali le zone economiche speciali, che nel mondo hanno costituito, nei passati decenni, uno dei vettori principali di sviluppo industriale.
Questo processo è stato reso possibile della definizione di una fiscalità di vantaggio e dalla una semplificazione amministrativa. Tali due leve sono state affiancate, nei paesi in via di sviluppo – il vero laboratorio di questo strumento di politica industriale – da un basso costo del lavoro e da uno smantellamento sostanziale del peso e del ruolo delle organizzazioni sindacali.

Parole, soltanto parole
L’avvio delle Zes è stato invece nel Sud molto lento, secondo la più classica tradizione italiana. Si fanno leggi che poi si affossano nella fase della attuazione. L’importante non è fare, quanto piuttosto fare finta di fare, salvo poi maledire il destino cinico e baro che impedisce il cambiamento.
Nel mondo, le zone economiche speciali sono circa 5.500: una buona metà è stata in grado di generare uno sviluppo economico sostanziale di quei territori. Nel caso della Calabria e del Mezzogiorno, alla legge istitutiva sono seguiti cinque decreti interministeriali di attuazione. Si tratta di una discussione durata più di due anni se gli incentivi fiscali dovessero essere automatici o meno, se l’autorizzazione per l’insediamento di una azienda nella Zes dovesse essere unica, oppure se era più attrattivo mantenere le trentaquattro autorizzazioni esistenti, aggiungendone una specifica per la Zes.
Stupisce anzi che nessuno abbia proposto che un imprenditore intenzionato ad insediare una impresa nel Mezzogiorno non dovesse fare prima un salto nel cerchio di fuoco con le gambe legate e gli occhi bendati. Insomma, a volte (per la verità, sempre più volte) l’architettura istituzionale italiana è alla ricerca di un “effetto Gabibbo”, quasi nella ostinata convinzione che serva una risata liberatoria per poter cambiare uno stato insostenibile della realtà.
Cambia il commissario alla Zes calabrese
Da un solo mese è stato nominato il nuovo commissario straordinario per la Zes calabrese, il secondo in ordine di nomina. Federico d’Andrea, ex colonnello della Guardia di Finanza, ha preso il posto di Rosanna Nisticò. Nella governance non resta peraltro ancora chiaro se abbia o meno un ruolo il comitato di indirizzo che precedentemente rappresentava la struttura incaricata di gestire e coordinate le azioni della zona economica speciale. Insomma, come spesso capita in Italia, ci si occupa di più degli organigrammi rispetto ai contenuti.
Ma l’Italia non è un paese in via di sviluppo
Poco inoltre si è riflettuto su un elemento essenziale, nel considerare l’assetto istituzionale che doveva essere definito nel Mezzogiorno per le zone economiche speciali. Per quanto strano possa sembrare, l’Italia non è un paese in via di sviluppo, quanto piuttosto un paese ad industrializzazione matura. La nostra crisi deriva proprio dalla stagnazione che si è determinata nel vecchio modello di articolazione manifatturiera.
Anche ad occhio, fotocopiare una legislazione pensata ed attuata, a livello internazionale, per realtà che dovevano incamminarsi su un sentiero di attrazione industriale che partiva dalla assenza di un tessuto e di una esperienza manifatturiera, non poteva essere la via maestra per chi invece aveva l’obiettivo di sperimentare le Zes in un territorio caratterizzato da una economia non solo storicamente radicata nel capitalismo, ma anche testardamente finora incapace di generare un solido sviluppo economico, nonostante le molteplici strade che sono state sperimentate nel corso di tanti decenni.

Zes meridionali poco competitive
Certo, per tante ragioni di contesto, le regioni meridionali non possono essere attrattive, nel contesto internazionale. Innanzitutto non possono esserlo per il basso costo del lavoro o per un tasso di sindacalizzazione sotto il controllo delle volontà imprenditoriali. E nemmeno si intravedono le condizioni per una radicale sforbiciata delle tasse, così come si è fatto per le Zes maggiormente competitive nel mondo.
Oltretutto gli strumenti di incentivazione messi in campo dal legislatore italiano, se confrontati con quelli delle altre Zes nel mondo, sono davvero poco attrattivi. Si limitano ad un credito di imposta parziale sugli investimenti e ad una timida operazione di risparmio sulla fiscalità aziendale negli anni iniziali di attività.
Meno burocrazia, più impresa e università
Ed allora, quali possono essere le leve sulle quali si può finalmente provare a far decollare le zone economiche speciali in Campania e nel resto del Mezzogiorno?
Innanzitutto, si dovrebbe promuovere un programma basato sul disboscamento di quella inutile burocrazia ottusa che non solo allontana le decisioni di investimento degli imprenditori, perché spaventa per la sua lentezza, ma spesso è piuttosto diventata la radice della corruzione, essenzialmente per generare corsie preferenziali di velocità rispetto alla palude nella quale restano impigliati gli imprenditori onesti.
Poi, c’è da far decollare un rapporto strutturato tra industria e ricerca scientifica, tra imprenditori ed Università. Un territorio collocato in un Paese ad industrializzazione matura deve puntare sull’economia della conoscenza, sul valore aggiunto determinato dalla innovazione che genera competitività.

Mentre ci avviamo a festeggiare un lustro dalla nascita delle Zes, forse qualche riflessione più matura e più consapevole sarebbe il caso di farla. Assistere alle consuete giaculatorie sull’ennesima occasione sprecata sarebbe davvero irritante, a meno di non voler convocare il Gabibbo nella squadra titolare delle istituzioni.
Non è un traguardo ormai molto ambizioso, considerata la qualità media della classe dirigente negli ultimi decenni, non solo nell’intero Paese ma soprattutto nelle regioni meridionali. Almeno, si potrebbe dire che vedendo il Gabibbo in azione ci si divertirebbe certamente di più.
Ma invece, in Calabria come nel Mezzogiorno, forse non c’è più tempo per crogiolarsi nella ironia. Sarebbe finalmente l’ora per mettere in campo strumenti e politiche per lo sviluppo e per il miglioramento della competitività.