Non è in aula Mimmo Lucano quando, poco dopo le 10, prende formalmente il via il processo d’appello che lo vede coinvolto assieme ad altri 17 imputati. «Non cerco alibi ma non rinnego niente di quanto ho fatto. Credo nella giustizia, ma nella giustizia degli ultimi, in quella giustizia che una volta si chiamava giustizia proletaria»: dal palco di una manifestazione targata Cgil a Chiaravalle, l’ex sindaco di Riace continua a tirare dritto per la sua strada. Rivendica il lavoro fatto nel “laboratorio” del paese dell’accoglienza. E difende alcune scelte – come quella di non allontanare i migranti alla scadenza dei sei mesi previsti dai regolamenti dei progetti d’accoglienza – che gli sono costate, almeno in parte, la pesante condanna emessa dal Tribunale di Locri.
Entrerà comunque nel vivo solo nell’udienza del prossimo 6 luglio il processo di secondo grado relativo all’indagine Xenia. Sarà allora che i giudici relazioneranno sulle posizioni dei presunti capi dell’associazione a delinquere che avrebbe compiuto «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità» sulle risorse che arrivavano in paese per i numerosi progetti di inclusione e accoglienza che avevano fatto di Riace un miracolo da studiare all’università.
La condanna
Saranno i giudici di piazza Castello a decidere se, come dicono le oltre 900 pagine di motivazioni alla sentenza del primo giudice, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano». Un’associazione che avrebbe agito alle spalle degli stessi migranti, riducendo l’intero progetto «a forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore».

Motivazioni pesanti come macigni e attraverso cui, il collegio locrese ha determinato, nei confronti di Lucano, una condanna a 13 anni e rotti di carcere per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali di cui era imputato). Una condanna andata ben oltre le richieste dei pm dell’accusa, che in sede di requisitoria avevano avanzato per l’ex sindaco una richiesta a 7 anni e 10 mesi di reclusione. E che di fatto ha scritto la parola fine sull’intero progetto d’accoglienza che, scrivevano i giudici di primo grado, si era ridotto ad un “baraccone” «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo».
Mimmo Lucano in appello
E se durissime erano state le motivazioni redatte dal collegio locrese, altrettanto dura era stata la richiesta d’Appello presentata dai legali dell’ex primo cittadino di Riace, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che quella stesa sentenza l’avevano bollata come «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza». Ben 140 pagine di argomentazioni dettagliatissime che il collegio difensivo del “curdo” aveva utilizzato per provare a smontare pezzo per pezzo la verità venuta fuori dal primo grado di giudizio. Sia dal punto di vista del riscontro politico che da quello giudiziario.