Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.

Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.
Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere
L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.

L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.
Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.

sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.
I professionisti al servizio del clan
Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente “pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.
Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.
Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.
Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita
È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.
Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.
In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.
«Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»
Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.
«Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è Marco Petrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.
Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato. Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».