Il Pnrr troverà il deserto delle infrastrutture a Sud

Investimenti nel settore crollati per colpa dello Stato centrale e degli enti locali. Capacità di progettazione inadeguate nel Meridione. E una Calabria dove la diffusione della banda larga ultraveloce ha percentuali troppo ridotte. Il report della Banca d'Italia non fa ben sperare per il futuro

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Come calibrare al meglio gli interventi necessari per colmare – almeno in parte – il ritardo che caratterizza le regioni meridionali nel nostro Paese?
L’attenta lettura ed interpretazione delle misurazioni dei divari infrastrutturali potrebbe consentire di intervenire con celerità, cogliendo l’occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per azioni mirate, al di là delle vuote teorizzazioni.

L’analisi della Banca d’Italia 

La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato tra gli Occasional Papers della serie Questioni di Economia e Finanza il lavoro “I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso” a cura di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller.
Si tratta di uno studio che, per misurare l’adeguatezza delle infrastrutture in un determinato territorio, sia economiche (reti di trasporto su strada e su ferro; porti e aeroporti; reti elettriche, idriche e di telecomunicazioni) sia sociali (ospedali e impianti di smaltimento dei rifiuti), propone un nuovo approccio.
I risultati non fanno altro che attestare un quadro desolato di accentuate differenze nella dotazione delle diverse aree del Paese, evidenziando il più delle volte una situazione di svantaggio del Sud e delle Isole.

Occorre precisare che vi sono notevoli difficoltà di ordine metodologico nel misurare il capitale infrastrutturale di un territorio. La letteratura, infatti, ha elaborato una pluralità di indicatori – monetari, fisici e, più recentemente, di accessibilità. Tuttavia, essi colgono aspetti parziali (l’entità delle risorse spese, l’estensione fisica delle reti, la marginalità geografica di un’area) senza consentire di valutare come effettivamente le infrastrutture incidano sulla vita economica e sociale dei territori. In tal senso, l’analisi promossa da Banca d’Italia differisce da altre basate su indicatori fisici o di spesa pubblica, che offrono una visione unidimensionale che il più delle volte si rivela fuorviante.

Meno investimenti? Colpe da dividere

In Italia le risorse destinate sia all’ampliamento sia alla manutenzione delle infrastrutture sono diminuite nell’ultimo decennio. La riduzione della spesa per investimenti pubblici è stata particolarmente intensa fra il 2009 e il 2019 (dal 4,6% al 2,9% del PIL). Ne è conseguito un allargamento del divario quantitativo e qualitativo rispetto agli altri paesi d’Europa. La dotazione di capitale pubblico delle aree del Paese che già segnavano un ritardo ne ha risentito notevolmente.

L’indebolimento infrastrutturale delle regioni meridionali non è da attribuirsi soltanto, come retorica vuole, alle scelte sbagliate dello Stato centrale. Il contesto italiano, infatti, si caratterizza per il sovrapporsi delle responsabilità fra più livelli di governo in materia di infrastrutture (sanità, istruzione, trasporto pubblico locale, smaltimento dei rifiuti urbani). Pertanto la responsabilità ricade per una parte significativa nella sfera decisionale delle amministrazioni locali, che erogano oltre la metà della spesa pubblica per investimenti.

Il federalismo fiscale e la ricognizione mai effettuata

Le capacità tecniche delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di portare a termine i lavori nei tempi programmati si sono rivelate troppo spesso inadeguate.
In termini pro capite, nella media dell’ultimo decennio, l’entità delle risorse per investimenti infrastrutturali è stata all’incirca pari a 780 euro per le regioni meridionali e insulari, contro gli oltre 940 delle regioni centrosettentrionali. È evidente che questa non sia la premessa migliore per affrontare l’ormai prossimo avvio del PNRR.

Nel 2009 la legge di attuazione del federalismo fiscale aveva previsto l’individuazione dei divari territoriali circa «le strutture sanitarie, quelle assistenziali e scolastiche, la rete stradale, autostradale e ferroviaria, quella fognaria, idrica, elettrica, di trasporto e distribuzione del gas, nonché le strutture portuali e aeroportuali». Ad oggi, tale ricognizione non è stata ancora realizzata.

Sud e isole fuori dai mercati

I dati disponibili, tuttavia, sono eloquenti. Dal momento che la competitività delle imprese è strettamente legata alla disponibilità di una rete adeguata di trasporti e di telecomunicazioni, nonché alla qualità del servizio energetico e idrico, che rappresentano input essenziali dei processi di produzione, è evidente che le opportunità di accesso ai mercati sono molto ridotte per la maggior parte delle aree localizzate nel Meridione e nelle Isole, come nelle zone appenniniche interne. Infatti, i territori con i collegamenti più veloci sono collocati nelle regioni settentrionali, soprattutto nella parte orientale.

In merito alle telecomunicazioni, un forte ritardo caratterizza il Paese nel suo complesso circa la disponibilità della tecnologia più innovativa: la connessione di rete fissa a banda larga ultraveloce. La Calabria, fatta pari a 100 la media italiana, raggiunge un indice di appena 15,9, nettamente inferiore anche a quello del Mezzogiorno (37,6).

I problemi con acqua e luce

Per quanto concerne il servizio elettrico, nelle regioni meridionali e insulari i buchi di tensione si verificano con una frequenza significativamente maggiore rispetto al resto del Paese. Per non parlare del servizio idrico: in molte provincie del Sud si registrano perdite di entità rilevante tali per cui alcune realtà sono soggette a fenomeni di razionamento dell’acqua per uso domestico. Addirittura, in capoluoghi quali Catanzaro, Palermo, Enna e Sassari, il razionamento idrico non è limitato ai periodi estivi ma interessa, per alcune ore al giorno, l’intero arco dell’anno.

A fronte di questo impietoso scenario, come agire per colmare o almeno ridurre, i divari?
Tenendo conto sia della componente ordinaria che di quella aggiuntiva dell’attività di investimento dell’operatore pubblico alle regioni meridionali e insulari dovrebbe essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45%, in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente.

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