Ho incrociato per la prima volta il pensiero di Ernesto De Martino negli anni 90. Il suo concetto di “crisi della presenza” ha influenzato profondamente il mio cammino di studente e studioso. Un concetto che incrocia memoria, cultura e riflessioni sul nostro bisogno di appartenenza. Una parola che rievoca “il Campanile di Marcellinara”. Ne parlavo qualche giorno fa col mio amico, sindaco proprio di Marcellinara, Vittorio Scerbo.
Chi era Ernesto De Martino
Ernesto De Martino è stato uno degli intellettuali più affascinanti del Novecento italiano: etnologo, storico delle religioni, filosofo e, soprattutto, un osservatore acuto della condizione umana. Nato a Napoli nel 1908, De Martino ha dedicato la sua vita a studiare le culture popolari, in particolare quelle del Sud Italia, con un approccio che univa rigore scientifico a una profonda empatia per le genti e le loro tradizioni. Non era un accademico chiuso nella sua torre d’avorio: De Martino viaggiava, osservava, ascoltava. Le sue spedizioni etnografiche in Lucania, Puglia e Calabria sono leggendarie, e libri come “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia” e “La terra del rimorso” sono pietre miliari dell’antropologia culturale.
Ma De Martino non era solo un ricercatore: era un pensatore che cercava di capire come gli esseri umani affrontano le grandi domande dell’esistenza. Come troviamo un senso in un mondo che spesso sembra caotico? Come ci ancoriamo alla realtà quando tutto sembra sfuggirci di mano? È qui che entrano in gioco i concetti del “Campanile di Marcellinara” e della “crisi della presenza”.

Gli anni ’90: il mio incontro con De Martino
Era il 1995, ero uno studente universitario di materie antropologiche, e le aule erano piene di discussioni appassionate su cultura, identità e società. Ricordo ancora il giorno in cui il mio professore ci parlò di Ernesto De Martino. Ci invitò alla lettura di “La fine del mondo”, un’opera postuma, complessa, frammentaria, ma incredibilmente viva. Fu come aprire una finestra su un mondo che non conoscevo: il Sud Italia degli anni ’50, con i suoi rituali, le sue paure, i suoi simboli. Ma soprattutto, fui catturato da un episodio che De Martino raccontava: il “Campanile di Marcellinara”.
Leggere quell’aneddoto fu come accendere una lampadina. Non era solo una storia, ma un modo per capire qualcosa di universale: il bisogno umano di avere un punto di riferimento, un luogo che ci dica chi siamo e dove apparteniamo. E poi c’era la “crisi della presenza”, un’espressione che mi colpì come un fulmine. Mi sembrava di aver trovato le parole per descrivere quella sensazione di smarrimento che, in un modo o nell’altro, tutti proviamo almeno una volta nella vita.
“Il Campanile di Marcellinara”: una storia semplice, un simbolo universale
Immaginatevi una strada polverosa in Calabria, negli anni ’50. Ernesto De Martino e i suoi collaboratori stanno viaggiando in macchina, incerti sul percorso. Incontrano un anziano pastore e gli chiedono di salire a bordo per indicare la strada, promettendo di riportarlo indietro. Il pastore accetta, ma mentre l’auto si allontana, succede qualcosa di straordinario. Il pastore inizia a mostrare segni di disagio, quasi di panico. Perché? Perché, a un certo punto, non riesce più a vedere il campanile di Marcellinara, il suo villaggio. Quel campanile, per lui, non è solo una torre: è il centro del suo mondo, il simbolo della sua “patria culturale”.
Quando il campanile scompare all’orizzonte, il pastore vive una “crisi della presenza”. Si sente perso, come se il mondo stesso gli sfuggisse. È solo quando il campanile riappare, tornando visibile, che il pastore si calma, scende dall’auto e, senza nemmeno salutare, si allontana, quasi correndo verso casa.
Questa storia, che De Martino racconta in “La fine del mondo”, mi colpì profondamente negli anni ’90. Non era solo un aneddoto curioso: era una chiave per capire come gli esseri umani costruiscono il loro senso di identità. Il campanile di Marcellinara non è solo un edificio: è un “axis mundi”, un punto di riferimento che dà ordine al caos, che ci radica in uno spazio e in una storia. Perdere quel punto di riferimento significa rischiare di perdersi, di cadere in quella che De Martino chiamava la “crisi della presenza”.

La crisi della presenza: il rischio di perdersi
La “crisi della presenza” è un concetto centrale nel pensiero di De Martino. È quella condizione in cui una persona, o un’intera comunità, perde il contatto con i propri riferimenti culturali e storici, finendo in uno stato di smarrimento esistenziale. È come se il mondo, improvvisamente, smettesse di avere senso. De Martino studiava questa crisi nelle società tradizionali, come i contadini del Sud Italia, ma la considerava una condizione universale.
Pensateci: quante volte ci siamo sentiti smarriti, senza punti di riferimento? Negli anni ’90, mentre leggevo De Martino, mi chiedevo se anche io, in un mondo che cambiava rapidamente – con la globalizzazione, l’arrivo di internet, le trasformazioni sociali – stessi vivendo una mia piccola crisi della presenza. Il campanile di Marcellinara mi sembrava una metafora perfetta: tutti abbiamo bisogno di un “campanile”, un simbolo che ci ancori, che ci ricordi chi siamo.
De Martino, però, non si limitava a descrivere questa crisi. Si chiedeva: come la superiamo? La risposta, per lui, stava nella cultura. Rituali, simboli, miti, tradizioni: sono questi gli strumenti che le società usano per aiutare gli individui a ritrovare la loro “presenza”, a ricostruire un senso di appartenenza. Nel caso del pastore, il campanile era il simbolo che lo riportava a casa. Ma anche in contesti moderni, abbiamo i nostri “campanili”: una canzone, un luogo, una storia di famiglia.
De Martino e il Sud: un’antropologia vicina al cuore
Negli anni ’90, studiare De Martino significava anche confrontarsi con il Sud Italia, un Sud che lui aveva descritto con rispetto e profondità. De Martino non guardava alle culture popolari come qualcosa di “arretrato”. Al contrario, vedeva nei rituali e nelle credenze del Sud una saggezza profonda, un modo per affrontare le grandi domande dell’esistenza. Nei suoi libri, come “Sud e magia” o “La terra del rimorso”, raccontava di tarantolati, di riti di guarigione, di pianti funebri. E io, leggendo, sentivo un legame con quelle storie, anche se venivo da un contesto diverso.
Da studente, mi colpiva il modo in cui De Martino univa la teoria alla vita reale. Non era un ricercatore distaccato: era qualcuno che si immergeva nelle storie delle persone, che ascoltava le loro paure e i loro sogni. Questo mi ispirava. Mi faceva pensare che l’antropologia non fosse solo una disciplina accademica, ma un modo per capire meglio noi stessi e gli altri.
Il Campanile oggi: una metafora per il nostro tempo
Oggi, nel 2025, quel “Campanile di Marcellinara” è ancora una metafora potente. Viviamo in un mondo in cui i punti di riferimento tradizionali – comunità, tradizioni, luoghi fisici – sono spesso messi in discussione. La globalizzazione, le migrazioni, le crisi ambientali ci spingono a cercare nuovi “campanili”. Ma cosa succede quando li perdiamo? La “crisi della presenza” è forse più attuale che mai. Pensiamo agli astronauti, come li descriveva De Martino, che nello spazio perdono la Terra come punto di riferimento. O pensiamo a chi, in un mondo iperconnesso, si sente paradossalmente più solo.
Tornando a quegli anni ’90, ricordo che studiare De Martino mi ha insegnato a cercare i miei “campanili”. Per me, forse, erano i libri, le discussioni con i compagni di università, le serate passate a parlare di idee che sembravano cambiare il mondo. E oggi, raccontando questa storia, mi rendo conto che il “Campanile di Marcellinara” è ancora lì, da qualche parte, a ricordarmi l’importanza di avere un luogo – fisico o simbolico – da chiamare casa.
Ernesto De Martino ci ha lasciato un’eredità straordinaria: ci ha insegnato che la cultura è il nostro modo di resistere al caos, di ritrovare la “presenza” quando tutto sembra perduto. Il “Campanile di Marcellinara” e la “crisi della presenza” non sono solo concetti antropologici: sono strumenti per capire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.

