Sono le prime ore del Sabato Santo, e l’aria di Nocera Terinese, in questo piccolo paese della Calabria affacciato sul Tirreno, è densa di un silenzio che sembra vibrare. Il tempo pare sospeso, come se i secoli si fossero annodati in un eterno presente. Torno ogni anno, da quando ero uno studente universitario con un quaderno pieno di appunti e curiosità, attratto da una tradizione che non si può spiegare solo con le parole: il rito dei “vattienti”. È un viaggio che mi porta ogni volta a confrontarmi con qualcosa di antico, viscerale, che parla di religiosità e appartenenza.

Venerdì Santo: l’odore del rosmarino e del sangue
Il sole è sorto da poco quando, di solito, arrivo nella piazza centrale. Le strade strette, che si arrampicano, sono già animate da un brusio sommesso. Alcune donne, vestite di nero, si muovono come ombre verso la Chiesa dell’Annunziata, dove la statua lignea della Madonna Addolorata – la Pietà, come la chiamano qui – attende di essere portata in processione. È una scultura del Seicento, il volto della Vergine scavato dal dolore, il Cristo morto abbandonato sulle sue ginocchia. Ogni anno, guardarla mi genera un certo effetto.
Mentre mi incammino verso una delle case ai margini del paese, sento un odore pungente: rosmarino bollito in una grande pentola, la “quadara”. Entro in un piccolo scantinato, accolto da un uomo, col quale diventeremo amici, uno dei “vattienti” di questa giornata. Il suo sguardo è un misto di determinazione e raccoglimento. «Lo faccio per mia madre, che ha ricevuto una grazia», mi dice, mentre si prepara. Indossa una maglia nera e pantaloncini corti, lasciando le gambe scoperte. Sul capo, un panno nero, il “mannile”, fermato da una corona di spine fatte di “sparacogna”, l’asparago selvatico che punge la pelle. Accanto a lui, un ragazzino, il suo “acciomu” – l’Ecce Homo – avvolto in un panno rosso, con una croce di canne sulle spalle. Sono legati da una cordicella, simbolo di un cammino condiviso.
Vattienti, un rito collettivo di Calabria
Mi mostra i suoi strumenti: la “rosa”, un disco di sughero liscio, e il “cardo”, un altro disco con tredici frammenti di vetro incastonati, che rappresentano Cristo e i dodici apostoli. «Prima riscaldo la pelle con la rosa» – spiega, «poi colpisco con il cardo. Non è solo dolore, è un’offerta». Lo guardo immergere le mani nell’acqua bollente al rosmarino, massaggiarsi i polpacci per far affluire il sangue. C’è qualcosa di sacro in questo gesto, ma anche di profondamente umano, quasi primitivo.
Fuori, la processione sta iniziando. La banda di Amantea suona la “Jona”, una marcia funebre che sembra scavare nell’anima. La Madonna Addolorata avanza lenta, portata a spalle da uomini in camice bianco, anche loro con corone di spine. Improvvisamente, il mio amico “vattiente” esce dal suo scantinato. Si batte le gambe con la rosa, poi con il cardo. Il sangue schizza, macchia il selciato, si mescola all’odore del vino che un amico gli versa sulle ferite per disinfettarle e tenerle aperte. Poi alza lo sguardo e incrocia quello dell’anziana madre che lo segue dalla finestra di casa. È un’immagine cruda, che potrebbe turbare, ma qui nessuno si volta dall’altra parte. È un rito collettivo, condiviso e controllato. Mi unisco alla folla, seguendo mio amico che si muove per le vie del paese correndo, fermandosi davanti alle case dei parenti, alle edicole sacre, al passaggio della Madonna. Ogni colpo è un atto di devozione, forse. Ogni goccia di sangue un dialogo con il divino, forse.

Vattienti Calabria: la processione infinita
La processione della Madonna, lunga, solenne, si snoda fino al convento dei Cappuccini, in cima a una salita ripida che ti tira i polpacci e ti fa venire l’affanno. Oggi i “vattienti” sono più numerosi, forse ottanta, cento, come mi racconta un giovane studente, aspirante antropologo, che incontro lungo la strada. «Non è solo religione», mi dice, «è identità, (ma che cosa è l’identità? Penso io). Qui il sangue è vita, rinascita, un legame con la terra e con la comunità». Annuisco, pensando a quante volte ho cercato di decifrare questo mistero senza riuscirci del tutto.
Seguo un altro “vattiente”, che si batte con una forza che sembra trascenderlo. Il suo “acciomu”, questa volta è un bambino di appena dodici anni, lo segue con occhi pieni di rispetto. Quando incrociano la statua della Madonna, il flagellante si inginocchia, colpisce le cosce con più vigore, il sangue scorre copioso. La folla tace, la banda si ferma. È un momento di sospensione, come se il “dolore” del “vattiente” e quello della Madre si fondessero.
Le ore passano, e la processione sembra non finire mai. Le strade di Nocera sono segnate da strisce rosse, il sangue dei protagonisti di questa giornata, si mescola alla polvere. Eppure, non c’è caos, solo un ordine antico, regolato da una tradizione che resiste nonostante i divieti del passato, le critiche di chi lo considera barbaro, le ordinanze sanitarie recenti, quando il rito rischiò di essere sospeso per questioni igieniche, legato a una pandemia. La comunità si ribellò, raccolse firme, trovò un compromesso. «Non è solo un rito», mi disse allora un anziano del paese: «Questi siamo noi».

Vattienti Calabria, una tradizione che non si piega
Quando la processione termina, nel tardo pomeriggio, la Madonna rientra molto lentamente nella Chiesa dell’Annunziata, gremita di gente. I “vattienti” si lavano le ferite con l’infuso di rosmarino, si rivestono, tornano alle loro vite. Io resto lì, seduto su un muretto, a guardare il tramonto che incendia il Tirreno. Ogni anno, da quando ero studente, mi chiedo cosa mi spinga a tornare. Non lo so. Forse è la forza di una tradizione che non si piega, che sfida il tempo e le convenzioni. O forse è il bisogno di toccare qualcosa di autentico, che non si nasconde dietro filtri o ipocrisie. Mi piace filmarlo, questo rito. Cerco sempre di scorgere sequenze nuove, inedite. Forse è per questo che ci ritorno ogni anno.
I “vattienti” di Nocera Terinese non sono solo un rito pasquale. Sono un grido, un’offerta, una storia scritta col sangue. E io, ogni volta, mi sento un po’ più vicino per capirla, anche se so che non la afferrerò mai del tutto. Mentre lascio il paese, con il suono della “Jona” ancora nelle orecchie, so già che tornerò l’anno prossimo, per perdermi ancora in questo viaggio tra religiosità popolare e mistero.