In un’era dominata dal flusso incessante di contenuti digitali, dove le immagini si accumulano in cloud invisibili e algoritmi decidono cosa ricordare, la fragilità degli archivi audiovisivi delle televisioni private calabresi tra il 1974 e il 2004 emerge come un monito silenzioso. Questi archivi non sono semplici depositi di nastri magnetici o bobine polverose ma sono frammenti di una memoria collettiva, di testimonianze visive di un Sud italiano in transizione, segnato da lotte sociali, aspirazioni moderne e ombre persistenti di marginalità.
IL DESTINO DEI SUPPORTI MATERIALI
Eppure, la loro precarietà fisica, economica e culturale, li rende vulnerabili, quasi evanescenti, come echi di trasmissioni che svaniscono nel buio di una notte senza ricezione. Riflettere su questa fragilità significa interrogarsi non solo sul destino di supporti materiali, ma sul valore stesso della storia locale in un panorama mediatico globalizzato, dove il locale rischia di essere il primo a essere sacrificato sull’altare del profitto e dell’oblio.
Il periodo 1974-2004 non è arbitrario, ma segna l’alba della deregulation televisiva italiana, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 1974 che liberalizza le trasmissioni via cavo, seguita dalla storica n. 226 del 1976 che infrange il monopolio RAI aprendo le porte alle emittenti private via etere.
TV PRIVATE CALABRESI: L’ARCHIVIO FRAGILE
In Calabria, questa rivoluzione assume contorni peculiari che da un territorio economicamente fragile, con un tessuto produttivo dominato da piccole imprese e cooperative, nascono emittenti che diventano la voce autentica di comunità isolate, catturando rituali, proteste e volti quotidiani. Ma proprio questa prossimità al suolo, cioè la capacità di “raccontare il territorio”, come recita il progetto PRIN “Telling the Territory”, nel Dispes dell’Università della Calabria, di cui recentemente si è tenuto un convegno per illustrare la ricerca in corso, si rivela una condanna per la conservazione. Oggi, progetti come “L’archivio fragile” tentano di riscoprire questi tesori dimenticati, digitalizzando materiali che altrimenti rischierebbero la dissoluzione. Questa riflessione esplora le radici storiche di tale fragilità, le sue manifestazioni concrete e le implicazioni filosofiche per la nostra comprensione della memoria.

IL MOSAICO DELLE TV PRIVATE CALABRESI
La nascita delle televisioni private in Italia è figlia di un fermento sociale e giuridico che scuote gli anni Settanta. Il monopolio RAI, pilastro del consenso statale post-bellico, si incrina sotto il peso di movimenti studenteschi, operai e femministi, che reclamano una comunicazione più democratica e plurale. La sentenza del 1974, legittimando le trasmissioni via cavo in ambito locale, apre una breccia: da Telebiella nel Nord a pionieri meridionali come Telediffusione Italiana Telenapoli, le “libere” emittenti proliferano, passando da poche decine nel 1977 a oltre 600 nel 1980. In Calabria, questa espansione è tardiva ma intensa: la regione, con la sua geografia aspra e le sue divisioni provinciali (Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria), vede emergere canali come Telemia (fondata nel 1979 a Bova Marina), Promovideo TV negli anni ’80 e Reggio TV dal 1998, TeleCosenza, Telestars, ReteAlfa, eccetera, fino ad arrivare a network come LaC TV.
UN SUD IN FERMENTO
Queste emittenti non sono meri diffusori di intrattenimento, ma producono documentari e inchieste che penetrano l’essenza calabrese. Immaginate servizi su feste patronali a Tropea, proteste contro l’emigrazione a Reggio Calabria o reportage sulle cooperative agricole cosentine negli anni ’80, durante la crisi post-terremoto dell’Irpinia che lambisce il Mezzogiorno, giusto per fare qualche esempio. Tra il 1974 e il 2004, il panorama evolve, la legge Mammì del 1990 consolida il duopolio RAI-Mediaset, marginalizzando le realtà locali. La transizione al digitale terrestre, culminata in Calabria nel 2012, impone costi proibitivi e la legislazione del 2004 ridisegna il settore con norme stringenti. In questo arco, le TV private calabresi catturano un “Sud in fermento”: aspirazioni di modernità contro ombre mafiose, come le inchieste su ‘Ndrangheta che, pur censurate o autolimitate, filtrano nei telegiornali locali.
UNA STORIA IN BETACAM
Ma la loro produzione è artigianale: nastri VHS, U-matic e Betacam girati con budget risicati, spesso da operatori multifunzione in studi improvvisati. Qui risiede il paradosso: queste immagini, vicinissime alla vita, sono le più esposte al deperimento.
La fragilità degli archivi audiovisivi calabresi si declina su più piani, intrecciando vulnerabilità tecnologica, precarietà economica e indifferenza istituzionale. Innanzitutto, il piano materiale: i supporti degli anni ’70-’90 – nastri magnetici in acetilcellulosa o poliestere – sono intrinsecamente instabili.
LA SINDROME DELL’ACETO
L’idrolisi, nota come “sindrome dell’aceto”, corrode questi materiali, rilasciando odori acidi e rendendoli illeggibili entro 20-30 anni se non conservati in condizioni ideali (temperatura sotto i 18°C, umidità al 40-50%). In Calabria, con climi umidi e depositi spesso in scantinati non climatizzati, questo degrado è accelerato. Molte emittenti, come quelle provinciali di Vibo Valentia o Cosenza, non hanno investito in digitalizzazione: i master originali giacciono in scatoloni, esposti a muffe, roditori o alluvioni. Il progetto “L’archivio fragile” dell’Unical ha riscoperto proprio questo: “archivi dimenticati” di emittenti private, dove bobine di documentari su migrazioni interne o tradizioni arbëreshë rischiano l’annientamento.

COSÌ MUORE UN EMITTENTE
Sul piano economico, la precarietà è endemica. Le TV locali calabresi nascono da iniziative imprenditoriali familiari o associative, con ricavi da pubblicità locale (negozi, sagre) che mal sopporterebbero i costi di conservazione. Negli anni ’90, la concorrenza di Mediaset e la crisi pubblicitaria post-2000 portano chiusure: emittenti come Studio 3 o Telespazio Calabria sopravvivevano con syndication precaria, senza fondi per archivi professionali. A differenza della RAI, con le sue Teche digitalizzate, queste realtà private non hanno obblighi normativi stringenti fino al 2004, e anche dopo, i contributi statali per le locali sono esigui. Il risultato è la dispersione. Al fallimento di un’emittente, i nastri finiscono in discarica, venduti a rigattieri o ereditati da eredi indifferenti. Un esempio emblematico è il fondo di Promovideo TV: attivo dagli anni ’80, i suoi archivi – ricchi di footage su eventi calabresi – languono in spazi non protetti, minacciati da obsolescenza tecnologica.
In un Mezzogiorno storicamente ai margini della narrazione nazionale, questi archivi incarnano una “memoria minore”. Non epica, ma quotidiana: un servizio su una processione a Mammola o un dibattito su disoccupazione giovanile a Catanzaro. La loro fragilità riflette quella di un territorio emarginato, come denunciato nei documentari televisivi del periodo, che il progetto PRIN descrive come “voci del piccolo schermo d’inchiesta”. Senza riconoscimento istituzionale – a differenza degli archivi AAMOD a Roma o delle cineteche settentrionali – questi materiali rischiano l’oblio, perpetuando un colonialismo culturale interno all’Italia.
LE ROVINE DI WALTER BENJAMIN
Questa fragilità non è solo tecnica, ma è esistenziale. Riflettendoci, gli archivi audiovisivi calabresi evocano la teoria di Walter Benjamin sulla storia come “cumulo di rovine”, dove il passato non è lineare ma frammentato, recuperabile solo da chi osa frugare tra le macerie. In un contesto come la Calabria, segnato da terremoti metaforici – emigrazione, ‘ndrangheta, spopolamento – questi nastri sono rovine vive che catturano non la grande Storia, ma le storie di chi resiste.
La loro precarietà interroga il nostro rapporto con la memoria: in un’era di big data, perché tolleriamo la perdita di miliardi di ore di footage locale? È forse perché, come suggerisce il convegno “Il documentario televisivo in Italia” all’Università del Salento, questi materiali sfidano il narrativo dominante, valorizzando “folclore e rivitalizzazione della cultura popolare” contro l’omologazione globale?
Filosoficamente, la fragilità richiama Paul Ricoeur e la sua “memoria, storia, oblio”: senza conservazione attiva, la memoria si riduce a oblio selettivo, dove il Sud è sempre “altro” da narrare. Eppure, proprio qui sta la speranza: progetti come “Telling the Territory” dimostrano che la digitalizzazione non è solo salvataggio, ma atto etico di restituzione. Riscoprire un nastro su una protesta operaia a Gioia Tauro negli anni ’80 significa ridare agency a comunità silenziate, trasformando la fragilità in forza dialettica.
TV PRIVATE CALABRESI: L’UNICAL IN CAMPO PER DIFENDERE GLI ARCHIVI
La fragilità degli archivi audiovisivi delle TV private calabresi (1974-2004) è metafora di un’Italia divisa: ricca di storie, povera di cure. Ma in questo rischio di perdita si annida un invito alla responsabilità collettiva. Istituzioni, università e comunità devono convergere – come nel PRIN Unical coordinato dal professor Daniele Dottorini – per digitalizzare, catalogare e narrare questi tesori. Chi scrive, con Patrizia Fantozzi e Antonio Martino, dell’unità di ricerca calabrese, è convinto che solo così, le immagini effimere diventeranno immortali, testimoni di un territorio che, pur fragile, ha sempre saputo inventare la propria voce. In fondo, conservare questi archivi non è mera filologia, ma è un atto di giustizia poetica, affinché il silenzio delle bobine perse non inghiotta il brusio vitale di una Calabria mai doma.

