Oltre il culto delle immagini, voce e vita sociale al Dispes dell’Unical

Nella tirannia delle immagini la parola e il suo contrario, il silenzio, diventano oggetto di ricerca non solo sociologica grazie all'iniziativa del Dispes

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Viviamo in un mondo in cui comandano le immagini. E’ dal secolo scorso che le nostre vite sono impregnate di forme di comunicazione legate all’uso delle figure, la fotografia prima, poi il cinema e la televisione e infine i social. E la voce? Che fine ha fatto la voce? Probabilmente è da questa domanda che è partita la spinta che ha mosso Olimpia Affuso, docente di Sociologia presso il Dispes dell’Unical a cercare il ruolo e il senso della voce nella costruzione di relazioni sociali.

Una ricerca che sin da subito è apparsa alla studiosa come ineludibilmente interdisciplinare, bisognosa cioè di sguardi multipli, di punti di vista diversi, in grado di cogliere le numerose forme della comunicazione parlata, ma anche del suo contrario, della comunicazione non verbale.

L’iniziativa del Dispes dell’Unical

Di qui l’organizzazione di un dibattito a più voci, per scandagliare e rivendicare quanto è fondante l’uso della parola nei legami sociali, ma pure quanto è forte la potenza del silenzio, che non è assenza di comunicazione. Del resto per coglierne l’essenzialità della voce basta andare indietro nella memoria, ai giorni della clausura, della pandemia che ci aveva obbligati a incontri di lavoro online, dove la massima preoccupazione era assicurarsi di essere uditi dagli altri partecipanti. Nella parole di Olimpia Affuso, che del dibattito è stata l’artefice, la lingua assume anche il ruolo di confine e di superamento del confine stesso, come confronto tra persone che parlano idiomi diversi, ma è anche strumento per manifestare emozioni, stati d’animo e perfino l’assenza della voce, il silenzio, è destinato a portare significati. E non basta, perché modulando la voce, cambiandone l’intonazione, abbiamo perfino il potere di mutare il significato stesso delle parole, quando l’uso del sarcasmo ne capovolge il senso.

 

Ortega y Gasset e Marshall McLuahn

Che il modo di osservare il ruolo sociale della voce fosse obbligatoriamente multiforme l’abbiamo già detto, del resto l’interdisciplinarità è sfida che sta molto a cuore a Giap Parini, che del Dispes è il direttore. Nessuno stupore dunque se è proprio lui a sottolineare come «la voce stia sul confine delle discipline” che assieme ne definiscono le sfumature e i sensi altrimenti destinati a sfuggire. Probabilmente l’intellettuale che maggiormente colleghiamo allo studio della comunicazione e dunque alla voce è McLuhan, che meglio di altri ha colto il passaggio dall’oralità della parola alla scrittura che è una forma di parola silenziosa e singolare. Parini nel suo intervento lo dice con efficacia, rinvenendo nelle pagine del sociologo canadese perfino una anticipazione dell’egemonia attuale dei social che McLuhan non ha potuto vedere. I social, infatti, sono l’estensione della lettura solitaria, della parola senza voce, una forma di esasperazione dell’individualismo appena stemperato dall’illusione della condivisione virtuale. La voce e il suo ruolo però non  sono argomento di studio solo delle scienze sociali, ma anche della Paleontologia, disciplina necessaria per capire come il linguaggio si sia sviluppato dalla necessità di comunicare quando le mani erano impegnate e a sostenere questa interpretazione fornita da Parini giunge Ortega y Gasset, che appunto afferma che “la voce è una forma del gesticolare”. L’intellettuale spagnolo, assai caro ai sociologi del Dispes e particolarmente a Parini stesso, rivela quel che già sappiamo senza averne piena consapevolezza e cioè che non c’è atto verbale che non sia ampiamente accompagnata dal corpo.

Parlo, dunque gesticolo.

Chi invece conosce bene l’inscindibilità del corpo dalla sua voce è Paolo Jedlowski, che prima iniziare il suo intervento chiede se può fare a meno del microfono, spiegando che “quando parlo gesticolo”. Lo si fa per potenziare il senso, rafforzarne il significato, il corpo segue la voce e le espressioni della faccia più di ogni altra cosa. Ma Jedlowski propone un altro aspetto della voce, quello di suscitare memoria, di sostenere i ricordi delle persone, ovviamente, quelle lontane, o che non ci sono più, ma pure dei tempi e dei luoghi. Il sociologo chiama in causa Joyce, che scrive nelle sue pagine l’opportunità “di mettere un grammofono nelle tombe”, per avere il ricordo della voce di chi manca. La voce dunque quale testimone della memoria, esattamente come lo sono le fotografie. La voce però continua ad esser anche altro, canzoni, per esempio, ed ecco apparire sullo schermo il duetto tra Nora Jones e Keith Richards in Love hurts, oppure film , come Paris Texas  di Wenders, in cui i protagonisti parlano senza vedersi, celati da uno specchio unidirezionale, ma riconoscendosi proprio dalla voce.

La voce e la sua assenza nel cinema, nei documentari e nei fumetti

Il cinema resta miniera per chi lavora sull’uso della parola, ed è Daniele Dottorini, sociologo e responsabile del corso di Laurea in Media e società digitale, a proporre nel dibattito un film difficile, eppure essenziale per comprendere la dialettica voce – silenzio.  Il Grande silenzio è il film diretto dal tedesco Groning,   che racconta la quotidianità in un monastero dove i monaci hanno fatto il voto del silenzio e che nelle parole di Dottorini è “potente e disturbante”. Quello di Groning, spiega ancora Dottorini, è più propriamente un documentario, dove l’assenza della parola assorbe interamente l’attenzione.

Ma c’è anche una produzione documentaristica che fa ampio uso della voce fuori campo e a spiegarcene il ruolo e le dinamiche è stata Alma Mileto, ricercatrice impegnata, tra e altre cose, sul ruolo della voce narrante nel cinema, che ha spiegato come la voce non serva solo a capire le immagini, ma a suscitare pathos. C’è poi il mondo del fumetto e lì la voce manca, esattamente come nella letteratura, eppure proprio come nei romanzi, ha spiegato Sergio Brancato, sociologo dei processi comunicativi, la voce e anche i suoni sono nella mente del lettore, che legge le parole circoscritte nella nuvoletta che sovrasta i personaggi e dà loro tono, senso, in altre parole il suono della vita.

 

 

 

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