Nel crepuscolo autunnale del Mezzogiorno italiano, dove il sole cala lento tra le serre e le colline aspre della Calabria e i venti del Tirreno sussurrano storie antiche, il 2 novembre è un giorno di silenzio imposto dal calendario liturgico, ma è anche un ponte – quel ponte liminale, evocato da Luigi Maria Lombardi Satriani e Mariano Meligrana nel loro Il ponte di San Giacomo (1975, ried. 1989) – che collega i vivi ai morti, come un passaggio vitale, un dialogo sotterraneo che nutre l’esistenza quotidiana.
Partendo da quel testo fondante dell’antropologia meridionale che illumina come le credenze popolari calabresi trasformino il lutto in un rito di resistenza e memoria, esploriamo il concetto di morte in questa terra di confine. Un ragionamento per comprendere come, in un mondo globalizzato e segnato da crisi recenti come la pandemia, la morte resti un «segno sotterraneo della vita», come ha scritto Lombardi Satriani: morte non come assenza, ma come presenza che modella comunità e identità.

Non svaniscono mai del tutto
Vito Teti descrive, in lavori come Pietre di pane (2011), come i morti non svaniscano mai del tutto. In alcuni tratti di folklore calabrese, essi ritornano come ospiti affamati dall’aldilà, per i quali i vivi preparano tavole imbandite con “ossa dei morti”, o il grano dei morti, un pugno di chicchi tumefatti nell’acqua bollente, metafora di corpi che rigenerano la terra fertile. Queste pratiche, radicate nel sincretismo tra cristianesimo e paganesimo pre-cristiano, riflettono un’antropologia del lutto che Ernesto de Martino definiva «pianto rituale», ossia un grido collettivo che non piange solo la perdita, ma riafferma i legami sociali contro l’angoscia del nulla.
Le prefiche di Pasolini
Nel Mezzogiorno più ampio, dal Cilento campano alla piana di Sibari, all’Aspromonte, alla Calabria grecanica, la morte è concepita come un ciclo agrario, intrecciato alla terra aspra e alla migrazione. Qui, il sudario non è solo stoffa nera – che, come nota un recente studio etnografico su usanze funebri calabresi (2025), le donne anziane indossano per un anno intero, o talvolta per la vita, come atto di fedeltà e protezione – ma un velo che separa e unisce mondi.
I rituali del 2 novembre, con le processioni ai cimiteri e le lamentazioni delle “piangitrici”, o prefiche evocate da Pasolini, trasformano il dolore individuale in un dramma corale, una forma di “contestazione culturale” contro l’oblio imposto dalla modernità. Lombardi Satriani lo coglieva già negli anni ’70: i morti calabresi, evocati nei canti e nei proverbi, sono “i segni sotterranei” che irrigano la vita contadina, impedendo che l’emigrazione – che ha svuotato paesi interi – recida le radici.
Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani diventa lutto invisibile
Ma che ne è oggi di questo ponte? Dati recenti, emersi da indagini antropologiche post-pandemiche, rivelano una resistenza affascinante, ma anche mutazioni profonde. Il COVID-19, con i suoi oltre 13000 decessi in Calabria tra 2020 e 2023 (dati ISTAT, aggiornati al 2024), ha imposto un lutto “invisibile” con funerali a porte chiuse, tombe visitate da lontano, un silenziamento che ha amplificato l’angoscia heideggeriana della morte come “propria e impropria”. Eppure, come documenta un report etnografico del 2023 sull’antropologia della morte nel Sud Italia, le comunità hanno risposto con innovazioni ibride.
A Reggio Calabria, nel 2020, i cimiteri di Condera e Paglia hanno visto ingressi contingentati, misurazioni termiche e mascherine, ma il rito si è adattato con preghiere via streaming, candele accese sui balconi, e un boom di “cunsulu” – quel pasto comunitario offerto alla famiglia del defunto – consegnato a domicilio, simbolo di solidarietà che ha rafforzato i legami in tempi di isolamento. Oggi, con la commemorazione tornata alla normalità emerge un’evoluzione deii rituali che incorporano il digitale, con app per virtuali suffragi e social media dove si condividono foto di tombe, trasformando il privato in pubblico.
Morte e riti arbëreshë e grecanici
In Calabria, terra di arbëreshë e grecanici, queste trasformazioni si collocano anche in specificità etniche, anche in periodi diversi dell’anno. Tra le comunità albanesi di Lungro o Frascineto, la Java e Prigatorëvet – la festa dei morti arbëreshë, mescola canti bizantini a credenze precristiane: i defunti “tornano” e i vivi lasciano porte aperte con pane e sale, eco di un’ospitalità come resistenza all’emarginazione. Qualche anno fa avevo notato come amiglie rurali hanno ripreso i “questuanti” – i bambini che, con zucche intagliate a teschio (coccalu di muortu), bussano alle porte chiedendo “oboli” per i morti – ma con un twist: incorporano elementi di Halloween, quel sincretismo globale che alcuni studiosi descrivono come “assemblaggio ludico” per rivitalizzare paesi spopolati. Non è diluizione, ma vitalità: la morte, ibrida, diventa strumento di aggregazione contro la solitudine pandemica.
Questo ponte, dunque, non crolla; si rinnova. In un Mezzogiorno segnato da spopolamento – con Calabria che perde 10.000 abitanti annui (ISTAT 2024) – e flussi migratori inversi, come i cimiteri siciliani e calabresi che accolgono i resti di migranti annegati nel Mediterraneo la morte interpella l’antropologia a una riflessione urgente: come ospitare l’estraneo defunto? A Lampedusa o a Cutro e Crotone, emergono riti nuovi – monumenti anonimi, preghiere interreligiose – che estendono il “memento” cristiano a un’etica mediterranea dell’ospitalità. Lombardi Satriani, con il suo sguardo sul folklore subalterno, ci spingerebbe a vedere qui non tragedia, ma potenzialità: i morti “stranieri” diventano semi di una memoria condivisa, contro le barriere erette dalla crisi.
Morte a Sud: fermiamoci ancora sul Ponte di Lombardi Satriani
Sul far della sera del 2 novembre 2025, mentre le campane echeggiano nei valloni calabresi, fermiamoci a ragionare su questo ponte. La morte nel Mezzogiorno è fermento, è invito a vivere con intensità, a custodire i segni sotterranei che ci legano. Come i chicchi del grano dei morti, che gonfiano nell’acqua per rinascere pane, così i nostri defunti ci ricordano che la vita deve fare i conti con loro per continuare a essere tale. In questa commemorazione, non piangiamo solo perdite ma celebriamo un’eternità quotidiana, appassionata e resistente, che rende il Sud un laboratorio antropologico vivo.
di Gianfranco Donadio


