Incandidabilità ed elezioni amministrative

La decisione della Commissione antimafia di escludere dalla competizione elettorale di Rende alcuni candidati ha sollevato un acceso dibattito. Mentre il voto è in corso pubblichiamo una riflessione sul tema

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                                                                                            di Tiziana Salvino,
                                                                                            Borsista di Ricerca
                                                                                                    Dispes Unical

 

È peculiare trovarsi di fronte, nel corso di ogni campagna elettorale, ad una annosa questione, che dovrebbe ricevere l’attenzione del legislatore statale, il quale, invece, appare “preferire” affidare il controverso tema della incandidabilità ad ogni momento storico o, preferibilmente, alle autorevoli voci delle Corti. Il caso calabrese appare, probabilmente, il più emblematico, poiché è in questa terra che si concentra il maggior numero di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e, di conseguenza, è teatro di dibattiti circa l’incandidabilità. In particolare, ci si riferisce alle consultazioni elettorali che riguardano il Comune di Rende.

La decisione della Commissione antimafia e le polemiche

La Commissione Antimafia ha stilato una lista di incandidabili, che, come prevedibile, ha suscitato polemiche e prese di posizione. Nel Comune Rende gli impresentabili sono, tra gli altri, Elisa Sorrentino, Domenico Ziccarelli, e Fabrizio Totera, i cui nomi compaiono nella lista della Commissione Antimafia, poiché, nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, in cui ora si svolgeranno le elezioni, rivestivano delle cariche o erano componenti della Giunta, al momento del decreto di scioglimento. Dunque, colpevoli per definizione. Cerchiamo, dunque di capirne le ragioni. È da qui che emerge un dibattito, se vogliamo, giuridico- legislativo, ma con opprimenti ricadute sulla vita politica. Tuttavia e per ragioni di brevità, la problematica da esaminare riguarderà soltanto un aspetto dell’art. 143 del Testo unico sugli enti locali (Decreto Legislativo 18 agosto 2000,  n. 267) e, in particolare, il suo comma undicesimo, secondo il quale, “Fatta salva ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo. Ai fini della dichiarazione di incandidabilità il Ministro dell’Interno invia senza ritardo la proposta di scioglimento di cui al comma 4 al tribunale competente per territorio, che valuta la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 con riferimento agli amministratori indicati nella proposta stessa. Si applicano, in quanto compatibili, le procedure di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del Codice di procedura civile”. Una norma di forte impatto, quanto problematica, poiché la locuzione lapidaria “gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento (…) non possono essere candidati alle elezioni (…) in relazione ai due turni elettorali successivi (…) qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo” pare eccessiva nonché porsi in contrasto con i principi generali dell’ordinamento.

In primo luogo, sembra confliggere con il principio di innocenza, pilastro fondamentale del diritto penale, sancito dall’articolo 27, comma 2, della Costituzione, secondo cui l’imputato non è considerato colpevole finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata e non sia stata emessa una sentenza di condanna definitiva. Nella norma in questione, se il reo è individuabile, è il reato a non esserlo, ovvero potrebbe individuarsi nel mero esser stato componente di una giunta sciolta? Il comma 11 dell’art. 143 del TUEL, così come modificato dai decreti-legge 41/2022 e 44/2023, pare prendere le mosse da una “presunzione di colpevolezza”, poiché colpisce coloro i quali sono stati membri di una Giunta comunale colpita dallo scioglimento a prescindere dalle singole condotte.

La Commissione antimafia ha escluso dalle elezioni di Rende alcuni candidati

La legge e il rischio di vittime innocenti

Tuttavia, appare paradossale supporre che un intero organo, soprattutto nei Comuni più popolosi, ogni singolo soggetto sia stato parte attiva del pactum sceleris, intrattenuto con la criminalità organizzata; non si dovrebbe, pertanto, lasciare che tale normativa continui a vigere indisturbata, mietendo vittime, quando nell’ordinamento italiano, come è noto, è già in vigore la c.d. “Legge Severino”, n. 90/2012, circa le incandidabilità. Per giungere al cuore della questione, pare che il legislatore abbia supinamente applicato il criterio
della successione delle leggi nel tempo, lex posterior derogat priori, non preoccupandosi minimamente di princìpi incontrovertibili. Se anche volessimo lasciare da parte il principio del favor rei, verrebbe in rilievo che l’utilizzo del criterio cronologico, atto a dirimere antinomie normative, appare piuttosto debole quanto ad argomentazione. Anche per i non addetti ai lavori, pare maggiormente plausibile che a prevalere sia la legge speciale, la legge Severino, rispetto alla norma del TUEL.

La legge Severino

La Legge Severino, il cui art. 10 circoscrive l’incandidabilità alle elezioni comunali all’esistenza di una sentenza definitiva di condanna per reati quali quello di associazione a delinquere di stampo mafioso, non si limita a punire “condotte” generiche (quali?) che hanno causato lo scioglimento dell’organo elettivo, indicando invece lo specifico reato che deve sussistere affinché il soggetto non sia candidabile. Quello delineato appare, dunque, un quadro caratterizzato da forte incertezza, poiché esistono, al contempo, norme che dispongono diversamente circa la medesima fattispecie, determinando il rischio
di trattare in maniera uguale situazioni dissimili. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, tuttavia, cercato di giungere a conclusioni maggiormente garantiste per il singolo, parlando di una sorta di “alterazione ambientale” della funzione amministrativa a cui il singolo amministratore partecipa a prescindere dalla propria volontà, e cioè per il solo fatto di essere inserito in una trama sociale non avente di per sé alcun carattere di illiceità. La riforma del 2009, pur specificando che gli elementi sui quali si basa il potere di scioglimento devono essere “concreti, univoci e rilevanti”, ha seguito la medesima strada, ma, in assenza di ulteriori (e necessari) interventi del legislatore, permane l’incertezza normativa.

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