Da Riace a Calais, viaggio sospeso tra accoglienza e inospitalità

Il libro scritto da Emmanuel Jovelin e Anna Elia che è stato presentato all'Unical pone a confronto due modi di immaginare l'accoglienza dello straniero, quella dell'esperienza di Mimmo Lucano a Riace e quella della "Jungle de Calais", prospettando la necessità incombente di costruire una "sociologia della inospitalità"

Condividi

Recenti

di Walter Greco (responsabile scientifico Laboratorio Capire, Dispes, Unical)

***

Nei giorni scorsi, all’interno del Laboratorio CAPIRE, si è svolta la presentazione agli studenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria del recente volume di Anna Elia (professoressa Associata di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria) ed Emmanuel Jovelin (Sociologie de l’(in)hospitalité. De la Jungle de Calais à Riace, Éditions du Cygne, Parigi, 2025), rappresentando un pretesto per andare al di là del consueto rito accademico che accompagna i risultati di una ricerca.

Emmanuel Jovelin, autore del libro Sociologie de l’(in)hospitalité. De la Jungle de Calais à Riace, Éditions du Cygne, Parigi, 2025

Una “sociologia dell’inospitalità”

Si tratta di un lavoro di ricerca che, improntato alla necessaria rigorosità scientifica, è dedicato alla costruzione di una possibile sociologia dell’inospitalità, configurandosi come una reale occasione – densa e dialogica – per mettere alla prova un lessico critico capace di cogliere i significati profondi dell’attuale regime europeo delle frontiere e dei sistemi di accoglienza ad esso legati. Il campo di lettura dell’opera, infatti, non si limita a descrivere ma interroga, mette in tensione, chiede una presa di posizione. Il titolo, felicemente perturbante, determina la lettura per cui l’inospitalità non è tanto un incidente della storia, ma un reale dispositivo, una struttura di pratiche e discorsi che respinge, seleziona, invisibilizza, ma che, proprio all’interno di questa propria natura, dev’essere resa leggibile nei suoi ingranaggi – giuridici, amministrativi, semantici – prima ancora che sia contestata sul piano normativo.

L’enorme accampamento di migranti sorto vicino Calais, in Francia

Riace e Calais -Sangatte, i luoghi simbolo

Nel libro, il confronto su questo aspetto si articola intorno a due luoghi-simbolo che assumono il valore di esperimenti sociali opposti: da un lato Riace, laboratorio di prossimità e convivenza, in cui l’accoglienza si fa politica territoriale e pratica di comunità; dall’altro Calais–Sangatte, paradigma europeo della “giungla” intesa non come eccezione ma come esito, perfettamente coerente, di una governance dell’assenza che produce dispersione, degrado amministrato, umiliazione quotidiana.

Sulla scena di Riace, l’esperienza appare insieme fragile e probante mostrando come l’inclusione funzioni quando si abbandona la logica dei finanziamenti frammentati e a breve termine per trasformarli in infrastrutture ordinarie — servizi educativi, sanità di base, lavoro di prossimità — con particolare attenzione a donne e bambini.

[jetpack-related-posts]

Sulla seconda scena – quella di Calais – si ricostruisce la genealogia degli sgomberi, delle dislocazioni, delle riemersioni ai margini, fino alla costruzione di una “città nella città” in cui microeconomie di sopravvivenza proliferano là dove lo Stato si ritrae e l’eccezione diventa regola. Il punto, nelle parole degli autori, non è contrapporre moralismi ma è mostrare come i dispositivi dell’inospitalità si ripetano, con variazioni locali, lungo l’intero spazio europeo, dalla Manica al Mediterraneo.

Mimmo Lucano, protagonista dell’esperienza di Riace

Mimmo Lucano, artefice di un esperimento di convivenza

All’interno di questo quadro, la figura di Mimmo Lucano assume un valore performativo: non un eroe, non un capro espiatorio, ma l’indice – concreto e controverso – del costo umano dell’innovazione sociale che attraversa torsioni giudiziarie e una retorica, spesso tossica, sull’ontologia della “legalità” come interdizione dell’aiuto mentre, al contrario, proprio la criminalizzazione della solidarietà finisce per funzionare da cerniera simbolica dell’inospitalità, riorganizzando la percezione pubblica. In questo quadro il conflitto non è tra legalità e illegalità, ma tra due modelli di ordine: da un lato quello che riduce le persone a “cifre in un modulo”, parte di una vera e propria industria dell’accoglienza che amministra la scarsità e la distanza e, dall’altro quello che restituisce nome, voce, legami, iscrivendo i nuovi venuti in un patto di convivenza che riguarda tutti, autoctoni e migranti, amministratori e cittadini.

Nausicaa e Ulisse alla radice dell’accoglienza

La storia e il mito, di cui la Calabria è largamente infarcita, fanno sì che i rimandi culturali non siano orpelli ma risorse ermeneutiche, come Nausicaa che, dinanzi a Ulisse nudo e vulnerabile, non chiede chi sia ma provvede a vestirlo, dando luogo alla fondazione di una tradizione mediterranea dell’ospitalità che precede la nostra modernità politica e la interroga. Le narrazioni non appaiono, dunque, come saghe esotiche, ma come miti perfettamente incasellabili in contesti reali capaci di ricondurre a esperienza sensibile ciò che la burocrazia tende a disincarnare. mentre la memoria civile funge da argine contro la tentazione di naturalizzare l’eccezione. Così Riace diventa la “nuova spiaggia” in cui il mito si attualizza e la storia torna a farsi, concretamente, lavoro quotidiano di istituzioni e cittadini.

L’incontro tra Nausica e Ulisse, diventato simbolo di accoglienza dello straniero naufrago in un’opera della seconda metà del 600

Le pratiche dell’inospitalità

Nominare l’inospitalità significa anche cartografare i suoi attori (media, burocrazie, ordinamenti), le sue pratiche (selezione, attese infinite, diritti intermittenti), le sue retoriche (emergenza, ordine pubblico, sicurezza) e le sue economie (del degrado, della precarietà, del confine). Da qui un’agenda minima che non indulge in astrattezze ma chiama a riconoscere la mobilità come tratto strutturale delle società contemporanee, a stabilizzare reti locali di accoglienza con risorse dedicate, a proteggere giuridicamente gli attori solidali e a garantire forme effettive di cittadinanza alle persone che arrivano, non come concessione simbolica ma come momento di partecipazione reale e di allargamento dei processi decisionali. Nel caso di Riace, tutto questo prende forma nella scelta di tempi lunghi, nella cura dei legami, nell’uso pubblico delle risorse in funzione della coesione sociale; nel caso di Calais, al contrario, il dispositivo dell’eccezione mostra la sua capacità di riprodurre un problema che finge di risolvere, moltiplicando gli interstizi in cui l’umanità viene trattata come eccedenza.

L’accoglienza come forma di democrazia

È qui che il libro mostra la sua utilità: non promette soluzioni facili, non offre scorciatoie morali, ma restituisce un lessico, una grammatica dell’attenzione, con cui leggere e trasformare pratiche istituzionali e immaginari collettivi. In definitiva, il lavoro di Anna Elia e di Emmanuel Jovelin consegna al pubblico un messaggio limpido secondo cui l’ospitalità non è un gesto caritatevole né un lusso di tempi prosperi, bensì un’infrastruttura della democrazia. Progettarla, finanziarla, proteggerla significa sottrarla alla tirannia dell’emergenza e riportarla alla politica ordinaria; significa riconoscere che l’ordine non coincide con l’assenza dell’altro, ma con la sua inclusione regolata in un patto di cittadinanza; significa, infine, accettare che le biografie – le nostre e le loro – si intreccino in città che non hanno bisogno di “giungla” per illudersi di essere sicure, ma di strade, scuole, servizi e diritti condivisi. Se Riace indica una via – pratica, replicabile, “dolce” – e Calais mostra un monito, sta a noi decidere quale delle due eredità vogliamo assumere come forma del presente. La sociologia dell’inospitalità non pretende l’ultima parola, ma chiede, più modestamente e più esigentemente, di cominciare a parlare con parole proprie di una politica che deve tornare ad agire senza rimuovere, senza violare, senza lasciare indietro.

La pericolosità di Riace

È proprio per questo che Riace diventa “pericolosa”: si trasforma in un’esperienza viva che sottrae carburante alla macchina politica che capitalizza l’angoscia dell’altro, dimostrando che la convivenza è praticabile, che i costi sono governabili e i benefici diffusi. Una prova vivente incrina la narrazione securitaria — che vive di eccezione e allarme — minando il consenso di chi su quelle paure costruisce campagne, carriere e rendite simboliche, fino a rappresentare tutta la società come necessariamente orientata verso forme di inospitalità

Sostieni ICalabresi.it

L'indipendenza è il requisito principale per un'informazione di qualità. Con una piccola offerta (anche il prezzo di un caffè) puoi aiutarci in questa avventura. Se ti piace quel che leggi, contribuisci.

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi in anteprima sul tuo cellulare le nostre inchieste esclusive.